Se la poesia sottende un messaggio etico-politico alla sì, le si può concedere d’essere asciutta, ai limiti del brutale. Perché la tragedia è asciutta, pur se dilaga nel sangue, pur se si fa rogo e poi cenere. Sarebbe stucchevole rivestirla di orpelli, laccarla con uno smalto di autocompiacimento, perché tu-poeta o poetessa, hai racchiuso in poche righe il degrado del mondo.
Laura Accerboni in Acqua Acqua Fuoco (Einaudi) racconta le macerie, il verso sinistro della caduta attraverso il verso altrettanto sinistro di un poetare senza rime, perché l’armonia è andata perduta, perché non c’è una metrica della (e nella) sconfitta.
Quando è cominciato questo sgretolamento sociale, antropologico e morale? Nel tracollo tutto moderno dell’attualità a portata di telegiornale, nelle maglie sintetiche del fast fashion, nelle tragedie che popolano gli schermi dello smartphone, in uno sciogliersi di polpastrelli senza più identità, e quindi impronta, che possa davvero definirsi sociale.
Rimangono gli elementi fondamentali, gli opposti, un paio di cortecce simboliche, declinabili a qualsiasi metafora o contesto: acqua e fuoco. Distruttivi e salvifici. Gli unici che hanno contribuito al giorno zero dell’esistenza. Ma c’è in queste crude poesie di Accerboni, la lucida consapevolezza del surreale e di ciò che ormai vanta la forma del fantasma.
Noi e loro, quelli che annoveriamo come vittime, quelli annegati nel Mar Mediterraneo, annegati insieme al tradimento e alla speranza, annullati da una politica dalle retoriche tossiche; ma ci sono anche coloro che hanno attraversato l’abisso del vuoto, quel giorno fatale, crollando insieme al ponte Morandi.
Se ci pensiamo, siamo tutti spettatori poco poetici, indossiamo il presente sotto forma di morte, a partire dalle scarpe che inconsapevolmente scegliamo, che altro non sono se non la pancia di un qualche animale sacrificato in nome di una suola, in nome di una moda che passerà più in fretta di un virus nuovo.
Il supermercato come novella natura morta in cui la metafora non vale neanche più l’estetica, e i versi, in questa raccolta, implodono con autorevolezza, diventano simboli per un universo interiore che ha abbracciato la ferocia e il disincanto anziché un concreto sistema di senso, poiché il tempo stesso è una battaglia misurabile, ma quasi persa ormai.
E al tempo s’attaccano le differenze: bocche unte da un lato, per il troppo cibo e il troppo ego, dall’altro bocche secche senza altri orizzonti; si muore in ogni caso, si annega nella ricerca chirurgica della vena artistica giusta.
E allora, tra una poesia e l’altra, cosa rimane?
Bisogna cercare ancora, come in un vecchio gioco che, per indicare quanto si è vicini o distanti dal proprio tesoro, usa gli stessi elementi del titolo “acqua-acqua= lontano, fuoco= ci sei!”.
E anche se siamo 8 miliardi su questa Terra, non annegheremo nel nulla: abbiamo prosciugato anche questa legittima risorsa.
A cura di Giulia Bocchio
Ho fotografato
l’inferno
è sempre a fuoco
perfetto
V.
Si vestono
per la colazione
al posto
della pelle
indossano
animali
vivi
dopo il caffè
si danno
la caccia
da soli
VI.
Sotto la pelle
si costruiscono
abitazioni
crescono
piante
finte
entrate.
Si percorre
tutto
all’interno
mentre fuori
qualcuno
chiede
dov’è la strada
Laura Accerboni, Acqua Acqua Fuoco, Einaudi 2020.