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Marco Melillo, Nuova canzone felice (Nota di Giovanni Perri)

Marco Melillo, Nuova canzone felice
Prefazione di Enzo Rega
Marco Saya Edizioni 2021

Ci sono libri che più degli altri parlano al lettore. Alcuni addirittura hanno la radicata ambizione (e vorrei dire vocazione) a risvegliarlo, a scuoterlo; lo includono nel duro lavorio della parola e lo sostengono con animo fiero; gli conferiscono un peso che viene da un’adesione sincera alla vita nella sua sfera di malinconie e delusioni, nella sua attrazione ad ogni minuta sofferenza dell’animo, ma il peso è rivoltato e svaga, battendo ali di farfalla che nell’aria fanno un suono bellissimo, lo stesso delle pagine che, sfogliate, prendono quota liberandosi come da un ruscello di sensi. Il lettore ne è completamente avvinto, al punto che ne avverte ogni sottile sfumatura ed ogni rumore di fondo, al punto che sente d’aver preso, in qualche modo, parte alla scrittura.
In tempi come questi, un sentimento che rientri nel suo corpo, che ridisegni la sua appartenenza e anzi ne rivendichi il codice come il necessario punto di congiunzione tra letteratura e vita, diventa, per chi legge, un’esperienza formativa e determinante. Primo perché s’impara a veder dentro se stessi, giacché il dolore nominato ci rappresenta; poi, e non in ultimo, perché da quel dolore risale un più integro sistema di voci e non si è più soli, ma parte di un tutto inestricabile. Il libro diventa allora una voce che si apre al mondo, un canto dappertutto esteso che trattiene e rilascia sedimenti di parole staccate dall’ombra, magari infilate in una bottiglia e lasciate sulla rena. Verrà il largo respiro di una mareggiata a prenderci e farci naviganti, e lì impareremo l’arte della resistenza; impareremo ad andare dove forse non avremmo immaginato o voluto, ma dove ad ogni onda avremo trattenuto il fiato e ritrovato un motivo vero di vita.
Se devo rintracciare un punto di partenza per queste mie digressioni sull’opera prima di Marco Melillo, Nuova Canzone Felice (Marco Saya Edizioni, 2021), è proprio quest’individuare il legame indissolubile tra scrittura e vita: è questo l’alveo dove la linfa nuda si rimescola e l’uno si fa multiplo nell’unica direzione possibile, il verso: calmo e ribelle ad un tempo, colto nella sua trama di raccordi illuminanti: invettive, ricognizioni, affreschi, flussi d’una sintassi anche, talora, turbinosa, labirintica ma sempre meditativa, fin dove ogni ascolto schiuda una scintilla di senso, nel  racconto di una lenta e appassionata ostinazione alla vita; è questo il luogo degli occhi che dicono di andare fin dove la corrente porti, attraversando burrasche e imprevedibili oblii; per buie fermate dove rovina il tempo e una voce cerca altre voci, le implora, sembra, quasi a cercarne un sostegno, quasi a dirgli il sostegno è qui, nostro, prendiamone cura. Ora è notte ed un lumino di poesia si accende su tutte le notti del mondo, chiama a raccolta i naviganti e li innamora, con la magia di un canto. Ora siamo pronti all’abbraccio della Canzone Felice, possiamo affondare e persino sporcarci le mani nel mare.
Ed eccolo. Il mare. Nel libro, ben articolato in quattro sezioni, esso dà l’abbrivo salato e ci accompagna come un antico dio della sorte. Marco ne tesse il dramma e la tragedia, cucendo geografia e ontologia come a voler entrare nei bui sommovimenti del suo cuore, e ce lo canta per navigare l’incerta lettura del mondo. Vedremo croci galleggiare ed occhi di bambini, sentiremo l’orrore in una fuga, in una colpa, in un giudizio. Perché in fine è una questione di scampo o di immanenza la vita, e anche la poesia lo è nella sua carica persino polemica, filosofica, politica. Marco dunque la lascia emergere dal fondo della sua coscienza che si fa collettiva e germina nel buio come il fuoco piccolo di una candela. Poesia Civile è stato detto, ma io dico non solo: poesia innamorata, poesia figlia e madre, guida e sentiero, oracolo di vecchi pescatori che sognano, di uomini e isole pieghe della terra affondata o riemersa, di tutti i bambini di Lesbo che continuano a sfuggire dalle mani; poesia dell’uomo solo che sta per piangere quando arriva in silenzio il padre, gli siede accanto, lo guarda.
Le altre sezioni, Disperanza; Dalle case d’altri; Invisibile mondo, seguono la medesima concentrazione di pensiero e di azione nel flusso di visioni altissime in cui la narrazione dell’umano discende o risale i perigliosi ma immaginifici cammini del tempo. Sembra quasi che la poesia si faccia essa stessa tempo assumendo i volti screpolati di un quartiere, planando su una città in bilico, inventando il passo di una gatta su una scalinata notturna dove due amanti si baciano; si sente la puzza di urina tra le limonaie, si sente il ronzio nelle orecchie / dei giorni felici.
Con la mano ben ferma sulla penna Marco racconta la libertà di un cuore che batte ad ogni cucitura, la sua nudità così fragile, il suo continuo stupore di fronte alla bellezza interminabile dei bambini che giocano al pallone, dei cani che piangono, di tutti gli uomini puri strappati alla terra. E da gran lettore qual è, chiama in rassegna i grandi poeti del passato, sue guide, aprendo possibili dialoghi che fanno da sfondo a un’identità che si anima e torna come una pagina tra Pasolini e Montale, Penna e Verlaine, Neruda, Whitman, Rimbaud, Baudelaire. Torna alla sua missione silenziosa, all’ascolto dei vivi e dei morti sotto questo cielo stellato, alla memoria e alla dimenticanza, al discanto per ogni amore sfiorato dalla gioia, dalla paura, tirato via da questa polveriera di sogni che è la vita.

© Giovanni Perri

Per navigare l’incerta lettura del mondo
la mappa è l’agire politico, l’acquisizione
di segni stranieri
dove vive il tu per intero
senza sillabare le forme che veste
la logica, finché il potere è una patria mortale.

Entro in cielo
divoro il libro
fisso sull’asfalto
una canzone.

 

 

Frequento molti cattivi sentieri
la grazia la fame l’arguzia la gioia
lo scrivere e la gentilezza
su tutti le strade di ieri

 

 

Quodlibet

Questa scrittura è più cerebrale:
è nata come una croce per reggere il pianto delle balene,
l’ambiguità di certi giorni azzurri
il giudizio insensato degli anni
ma non sa difendersi
non vuole difendersi
non deve scappare da nulla
va incontro alla vita ridicola
dai molti attesa, alla tragedia annunciata.

Come la sprecano immagini futili
così la spiegano i fraintendimenti
gli sguardi esatti della paura.

Sul suo corpo esanime
ritroverete il continuo questuare
dei mendicanti
il ronzìo nelle orecchie
dei giorni felici.

Ad essa fede indistinta perfino prometto
eterna
al di sopra di ogni altro amore.

Non vi ingannate perciò
sopra i toni più atroci del tempo
o sul volo che affonda talvolta retrivo:
essa è una farfalla viva,
la sua anarchia non ha conto
di teche virtuali e musei
per cui giustifichiamo presente e futuro
frugando l’incolume esempio
che per elevarci chiamiamo passato.

 

 

La nostra immagine persa negli anni,
la tua parola.
Abbiamo le porte aperte d’estate su qualunque mare
giochiamo accendiamo nel cielo anche l’ultima
stella da prendere. La peregrina che incalza
fin sotto le lenti, la prima a lasciarci andare.
O memoria liberata, non scrutarci come fossimo
guardiani di un tempo, non frenarci mentre andiamo
incontro all’anima vagante di spergiuro
non punirci se non ti accogliamo sempre.
Abbiamo altri nudi su altre soglie. Riponi la tua
nomenclatura
abbassa il fuoco sulle nostre doglie.
riposaci se puoi sulla tua maschera di giorni osceni.
Fanne a memoria di te per com’eri, uno stendardo
di luci e di sangue a redimere questo invisibile mondo.

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