Fabrizio Bajec, Sogni e risvegli
collana A 27
Amos edizioni 2021
Nota di Andrea Talarico
Chi frequenta la poesia di Fabrizio Bajec e conserva ancora vivo il ricordo della sua ultima raccolta La collaborazione (Marcos y Marcos, 2018) sarà forse colpito dal brusco cambio di registro dei componimenti, tutti presentati da una prospettiva più intima e coniugati per lo più al passato, che aprono la nuova raccolta Sogni e risvegli, uscita a maggio, per Amos Edizioni, nell’interessante nuova collana «A27 poesia», diretta da Sebastiano Gatto, Maddalena Lotter e Giovanni Turra e inaugurata nel settembre 2017 da Variazioni sulla cenere di Fabio Pusterla.
La collana rappresenta una scelta editoriale piuttosto coraggiosa nel panorama editoriale contemporaneo: le raccolte pubblicate sono tutte relativamente brevi (all’incirca una trentina di testi) in un formato a metà strada tra la plaquette e la raccolta poetica vera e proprio e prende il nome dall’A27, dalla descrizione dell’editore stesso:
A27, l’autostrada che taglia verticalmente il Veneto orientale, accoglie in sé molti significati e sovrasensi: incontri passaggi soste scambi. E così la sua poesia: colta da un vasto dintorno di esperienze, ci apre a mondi, e modi, ignoti eppure prossimi.
Ho letto questa definizione solo dopo aver ultimato la lettura di Sogni e risvegli, e confesso di aver pensato immediatamente che questa raccolta di Bajec aderisse perfettamente al contenuto di queste righe, ma andiamo con ordine.
La raccolta, che il poeta dedica alla figlia Arielle, si apre non a caso con una citazione di Aristotele (Etica Nicomachea X (K), VIII, 1178b, 20-23) che, se ho bene inteso, costituisce una delle chiavi di accesso privilegiate per la piena comprensione dell’ispirazione e degli intenti della raccolta:
Che poi la felicità perfetta risieda in un’attività contemplativa può risultare anche dal fatto seguente.
Noi cioè immaginiamo che gli dèi siano sommamente beati e felici: quali azioni dunque si devono attribuire ad essi? Forse quelle giuste? Ma non sembreranno forse ridicoli, qualora facciano contratti, si restituiscano depositi e facciano simili cose? Oppure le azioni coraggiose, immaginando che compiano cose paurose e che corrano pericolo perché è decoroso? Oppure le azioni generose? Ma a chi doneranno? Ma sarà assurdo che abbiano monete o cose simili. E le loro azioni moderate quali sarebbero? Non sarebbe forse cosa grossolana il lodarli perché non hanno cattivi desideri? Se si considera tutto ciò che riguarda le azioni, ci apparirà sempre piccolo e indegno degli dèi. Eppure tutti ritengono che essi vivano e che quindi siano in attività, non che dormano come Endimione. Se dunque a chi vive si toglie l’agire, e ancor più il creare, che cosa resta se non la contemplazione? Cosicché l’attività del dio, che eccelle per beatitudine, sarà contemplativa. Quindi anche tra le attività umane quella che è più congenere a questa, sarà quella più capace di render felici.[1]
Rispetto all’originale, il passo così come è citato in Sogni e risvegli appare leggermente diverso:
[…] Se si toglie a un essere umano il potere di agire e, ancor più, quello di creare, cosa gli rimane oltre alla contemplazione?» (Aristotele) (Sogni e risvegli, p. 13)
Si noterà soprattutto lo scarto tra gli esseri viventi («a chi vive»), quali sono gli dèi di cui parla Aristotele nel testo originale, e l’essere umano della citazione riportata da Bajec. Il cortocircuito potrebbe essere generato banalmente da uno scarto di traduzione rispetto a quella tenuta sotto mano dal poeta oppure si potrebbe pensare a una precisa volontà del poeta di piegare il dettato di Aristotele per fornire un suggerimento neanche troppo velato al lettore: del resto leggendo il solo estratto nella forma proposta da Bajec si può intendere che le capacità di agire e creare siano attivamente tolte all’essere umano e quindi il significato del passo sia in qualche misura reinterpretato in negativo attraverso questo scarto. Ma siamo nel dominio della pura speculazione; pure mi sembrava doveroso presentare questo problema per toccare con mano quanta attenzione occorra prestare ai dettagli per poter anche solo intravedere la fitta rete di significati che si celano dietro il testo letterario, e poetico in particolare.
Per entrare nel merito della raccolta, questa si suddivide in sei parti distinte e numerate progressivamente dall’autore: I. Spettri, II. Nascita e contemplazione, III. Cronache di un’infanzia rurale, IV, Quaderno messicano, V. Poema della fame, VI. Un’altra via.
Come indica lo stesso autore nella Nota in calce alla raccolta (pp. 83-86): «Eccezion fatta per il Poema della fame, le poesie di questo libro sono state scritte in francese e tradotte in italiano così come procedo ormai dal 2008, l’auto-traduzione essendo per me una terza lingua» (p. 83): il processo di auto-traduzione di Bajec, in un autore bilingue e familiare con la cultura tanto italiana che francese, diventa da un lato processo creativo, dall’altro strumento di auto-esegesi e in un certo senso anche di mediazione culturale.
La prima sezione, Spettri, contiene già in nuce i motivi fondamentali di Sogni e risvegli, i cui componimenti prendono occasione da elementi che provengono dalle dimensioni del ricordo e del sogno, al punto da rendere difficile per il lettore (e forse lo era anche per l’autore) distinguere le due. Un ruolo decisivo è giocato dalla riflessione del poeta sulla sua paternità: alla figlia è infatti dedicata la raccolta e la figlia entra in scena già, come destinataria di una promessa, in Prima dell’alba, secondo componimento della raccolta. Accanto alla figlia, che avrà un ruolo decisivo nelle parti successive, emergono ricordi del passato, figure come la nonna del poeta (Pasto frugale) o componimenti di ispirazione zen (La montagna delle farfalle: anche lo zen giocherà un ruolo fondamentale in Sogni e risvegli) e dialoghi con poeti (o artisti, o opere d’arte) che sono stati in qualche modo fonte di ispirazione per Bajec (Da una poesia di Magrelli).
Nella seconda sezione, Nascita e contemplazione, forse la più riuscita dell’intera raccolta, assume un ruolo centrale la figura della figlia, cui «spetta in modo/ predefinito la prima persona» (1.): i componimenti sono tutti opera della figlia, del resto «il bambino è poeta a due anni/ e il padre trascrive un’opera orale»; a lei spetta il diritto di dire “Io”:
Ti offro il mio muco ogni mia caduta
la saliva il peso del mio sedere
al mattino sulla mascella il mio cranio
privatizzo la tua mano o un dito
dopo essere crollata mille volte
seguendo il rito della sonnolenza
una danza o caccia in pianura
temo i rapaci che tu continui a convocare
le garguglie alate già scendono dalle chiese
non ho altre richieste tutto brucia qui sotto
. (Nascita e contemplazione, 4.)
Da questo componimento che ho tratto come esempio mi permetto di far notare almeno due dettagli a mio avviso rilevanti: il primo la scelta poetica, se vogliamo piuttosto rischiosa ma coerente in tutta la raccolta, di rinunciare completamente all’utilizzo dell’interpunzione affidando la scansione ritmica della poesia alla sola prosodia e all’uso degli a capo e la scansione sintattica all’intelligenza del lettore. Per quanto riguarda invece il processo di auto-traduzione, è significativo l’impiego del termine desueto garguglie per indicare quelle “chimere” (intese in senso architettonico) cui ci riferiamo comunemente con l’inglese gargoyle(s). Il termine garguglie, invece, pur desueto in italiano (al pari dell’altro adattamento impiegato nella nostra lingua: gargolle) è molto più vicino, a livello fonomorfologico, al francese gargouilles: è uno di quegli esempi in cui il processo di auto-traduzione delle poesie di Bajec da un originale in francese diventa parte fondamentale del processo creativo e dell’esito sul piano formale e stilistico e che comporta anche un notevole scarto culturale, laddove al termine esclusivo e comune nell’uso dell’originale francese viene reso con un termine inconsueto in ragione di una maggiore fedeltà fonomorfologica. Aggiungo inoltre, per curiosità, che Gargouille è anche il nome che, nel mito, ha il drago che fu sconfitto da Saint Romain, arcivescovo di Rouen, e da questo mostro prenderebbero il nome le celebri sculture.
In Cronache di un’infanzia rurale i componimenti, che prendono spunto da occasioni ed episodi collocati geograficamente in Egitto (dove l’autore ha trascorso parte dell’infanzia), permettono una descrizione “straniata” di riti, luoghi e monumenti, visti attraverso gli occhi del bambino:
le sfingi medie non hanno testa
su quelle più grandi non posso salire
nelle nere stanze dormono uomini essiccati
e pieni d’oro il faraone mi incute un terrore
simile a quello del girasole
contemplato dalla casa al mare
mostruoso quando sfiorisce
la sua fine fa ancora più paura della vita
lo sento sputare imprecazioni tra le smorfie
orrendo non poterci far nulla
. (Abu Simbel-Agami)
Nella quarta sezione, Quaderno messicano, Bajec raccoglie pensieri ed emozioni dietro la prospettiva di un “noi” collettivo che dovrebbe stare per i tre membri della famiglia, inizialmente. Ben presto, però, la dimensione del ricordo, che apre anche questa sparte della raccolta e prende spunto da un viaggio di famiglia in Messico, scivola presto verso componimenti dal tono più spiccatamente politico e sociale (Fondazione Dolores Olmedo). Gli ultimi componimenti, senza titolo, provvisti solo di numerazione progressiva (1.-4.) marcano un progressivo slittamento dal “noi (famiglia Bajec)” al “noi (esseri umani)”, ed è eloquente in questo senso la funzione del villaggio Sangre de Cristo, che inscena quasi una macabra comunione, preludio al Poema della fame.
Peculiare proprio la posizione del Poema della fame, già pubblicato autonomamente sul sito web “Le parole e le cose” nel giugno 2019 (la prefazione che lo accompagnava è riprodotta alle pp. 84-85), ma che alla luce della sua nuova collocazione in Sogni e risvegli andrà letto diversamente, non più (o meglio, non solo) come componimento ispirato dalle manifestazioni dei “gilet gialli” francesi, ma come punto di ribaltamento o acme del libro. A questo proposito è interessante notare come l’autore abbia deciso di non inserire una quarta parte del poema che, sebbene espunta già al momento della apparizione su “Le parole e le cose”, pure l’autore aveva deciso di “riabilitare” in un secondo momento, pubblicandola su “Puntapenna” nell’ottobre del 2020.
La sesta e ultima sezione, Un’altra via, si apre sul ritratto di un uomo riconciliato con sé stesso e con la natura, dopo il tumulto civile e politico delle due sessioni precedenti, caratterizzate da toni violenti ed eventi conflittuali. Ora invece abbiamo un individuo che
vive in pace su una sedia di legno
ben nascosto in fondo al giardinetto
i passeri vengono a lui e anche i piccioni
si aggiungono ma non vi è cibo ai suoi piedi
è la natura stessa che lo riconosce
e gli animali sono come estasiati
. (Un’altra via, 1.)
Questo processo di maturazione trova forse la sua massima sintesi e raffigurazione nel componimento che chiude l’opera, Ritiro, dove nello slittamento da ‘0’ a ‘O’ dobbiamo forse vedere, alla luce dei rimandi allo zen cui si è accennato in precedenza, un riferimento a uno dei simboli fondamentali della disciplina zen, l’ensō, un cerchio dipinto a mano, solitamente con una singola pennellata, e che rappresenta il vuoto (la forma è vuoto, il vuoto è forma), il momento in cui la mente è libera di lasciare che il corpo si dedichi all’attività creativa, come suggerisce il riferimento al maestro zen Seppo che il poeta si premura di rendere esplicito nella Nota dell’autore (p. 86).
© Andrea Talarico
[1] Cito da Aristotele, Etica Nicomachea, trad. it. di Armando Plebe in I classici del pensiero. Aristotele, Milano, Mondadori, 2008 (2 voll.), II, pp. 7-280, X (K), 1178b, 8-24.
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