Stefania Di Lino, Il corpo del padre (24 febbraio 2017)
Edizioni Progetto Cultura 2021
Le Gemme – Collezione di quaderni di poesia curata da Cinzia Marulli
La parola e la carne, la scrittura e la vicenda umana: Il corpo del padre di Stefania Di Lino
io c’ero nell’attesa
La parola e la carne, testimonianza e scandalo: la scrittura di Stefania Di Lino va sempre al cuore e alla sostanza della parola poetica e, con una esemplare saldezza e lucidità, sgombra il campo da equivoci e fraintendimenti di comodo, riporta la barra del timone nella direzione troppo spesso ignorata, omessa, dimenticata; dal silenzio denso di pensiero e passione restituisce la parola che si è fatta corpo, nel suono e nell’attraversamento del tempo in cui gli umani sono carne.
Il corpo del padre dà testimonianza, sonora di passione e consapevolezza – «io c’ero nell’attesa» -, di quel complesso incontro tra dolore ‘privato’ e restituzione ‘pubblica’ incarnato dalla poesia.
Il sottotitolo è costituito da una data, 24 febbraio 2017, il giorno della morte del padre. Intorno a quella data si raccolgono i componimenti, a proposito dei quali leggiamo, fin dalle prime pagine: «son poesie che vengono tutte insieme / vive la scrittura / di un tempo sottratto alla morte».
Emerge dunque immediatamente, diario di bordo e dichiarazione di poetica, un aspetto fondamentale della scrittura di Stefania Di Lino, vale a dire l’assunzione precisa di responsabilità in quel delicato e ineludibile passaggio dal dato biografico, dal singolo percorso esistenziale agli ‘universali’ del poiein. Quel passaggio, e torno con questo all’affermazione formulata in apertura, addensa e illumina, prende in carico l’assenza, la notte, il disfarsi della carne e ne fa parola che viene pronunciata con la chiarezza, con la inequivocabile precisione che sono, e continuano a essere, fonte di scandalo per coloro che prediligono il dire addomesticato. Lo scandalo sta nel farsi carne, nel farsi corpo del pensiero. Dà scandalo vivere integralmente nella storia e darne testimonianza. Dà scandalo, nella stessa misura e in un moto inseparabile, la sacralità della poesia, suo tratto che abbraccia e oltrepassa ogni culto.
La poesia di Stefania Di Lino sa, e lo dichiara, che ogni poeta scrive inevitabilmente nel proprio determinato orizzonte; sa anche, tuttavia, come ogni “mai innocua parola”, di avere tra i propri moti originari, tra le proprie scaturigini, il gesto di Antigone, la sua cura e la sua ribellione, la sua disubbidienza al potere ghignante e la sua pietas, costretta dal tempo a divenire atto di eroismo.
L’immagine del giardino che, senza sconfessare la propria limitatezza, si infittisce e si popola di ombre altrove ignorate o sconfessate, domina un componimento particolarmente significativo: «e di cosa altro scrive un poeta/ che non vada oltre il suo orizzonte/ che non sia l’assiduo del suo giardino/ il passaggio fitto scuro delle ombre?».
Questo «passaggio fitto scuro delle ombre» si arricchisce di un dato che moltiplica i richiami, giacché anche il padre, nei cui occhi si intravede a volte «il verde profondo di un bosco antico», è poeta: «in tarda età lui ribattezzò il figlio:/ lo chiamò Giglio/ e poi toccò alla figlia/ chiamandola Giglia/ pur moribondo il poeta non mente/ ha in circolo dosi di morfina/ e poesia insieme a qualche rima,»; è poeta nel senso pieno del termine, nel senso additato in precedenza, nell’aver dato, in poesia, voce all’incarnarsi inseparabile di etica ed estetica.
L’itinerario di passione del padre è testimoniato da testi che, se da un lato rievocano i quadri di un dramma in stazioni (anche coincidenti con i luoghi: pronto soccorso, reparto e scenari della gioventù paterna), dall’altro serbano e sviluppano una costante nella scrittura di Stefania Di Lino, il fondersi di ragionamento e ritmo nella parola poetica che reclama di essere detta, enunciata, pronunciata. Fermamente, ad alta voce. I versi non sono separati, infatti, da “a capo”, ma fatti scorrere, fluire nella melodia di ciascun componimento, con le barre oblique che segnano le pause del respiro; inoltre i componimenti si concludono con una virgola, mai con un punto fermo. Talvolta, “a capo” e barre oblique si presentano associati; qualche altra volta ancora, inserti in corsivo, per lo più tra parentesi quadre, introducono considerazioni, riflessioni, istruzioni.
In Il corpo del padre questi aspetti si manifestano con particolare efficacia, come nel testo che racchiude e presenta la situazione, lo scenario, la spinta propulsiva e l’impegno preso da colei che scrive:
ed ora esserci /(stare (in qualche modo stare) /
accompagnare (in qualche modo accompagnare) /
chi si avvia al grande silenzio,
Esserci, stare, accompagnare chi si avvia al grande silenzio. Esserci, stare, con lo sguardo desto del testimone, di chi non si sottrae, anche nel dolore del distacco, al vedere ciò che è crudo, è atroce, è tremendo. Accompagnare, nella notte, nell’ora oscura, in cui si sceglie di non essere soltanto testimoni con tutti e cinque i sensi, ma di riconoscere, accanto alla memoria dei dissidi e nello strazio della partenza, slanci e contrasti comuni: «unici e preziosi incastri talvolta ci incontriamo/ e di noi siamo il nostro rumore/ la voce il passo /di noi siamo il tonfo la caduta verticale /la rossa macchia localizzata in una coltre sudario / eppure abili siamo e nel moto della migrazione/ dilaghiamo fino all’orizzonte /ne cadiamo dentro e intorno ci espandiamo».
Dalla pienezza di una testimonianza che non separa spiritualità e corporeità discendono considerazioni su quello che si sarebbe potuto fare, sulle voci del mondo che sono rimaste inascoltate, finché l’irrompere dell’odio non è diventato guasto irreversibile: «avremmo dovuto stenderci sulla riva del mare / ad ascoltare attenti ogni singolo suono / annusare dell’aria l’odore il respiro /il segnale animale / farci attraversare dai secoli che sembravano alle spalle».
Eppure per la poesia, e qui, con evidenza trascinante e commovente nel penultimo dei componimenti, non è perduta l’occasione di farsi attraversare dalla Storia. Si tratta, per Stefania Di Lino, della Storia percorsa dal padre, il quale, giovanissimo, percorreva a sua volta la via Ostiense, «ossimorica visione questa mai finita/ attuale questa che si dispiega tra i cadaveri e il mare». Storia di orrori, di guerra, di resistenza, storia di speranze, di gioia di vivere, di danze nuove e volteggi e boogie woogie, di versi sincopati di canzoni e sogni di chi ti parlerà d’amore, proprio come Mariù.
Se «un poeta è tale quando intende la lingua / bisbigliata dai morti», allora questi tende l’orecchio a cogliere e a restituire la voce della Storia, insieme a quella della propria primissima storia, la storia delle attese e dei ritorni nell’infanzia, la storia delle corse alla porta quasi ad anticipare il momento lieto del rientro a casa, della «ritrovata epifania».
Anna Maria Curci
son poesie che vengono tutte insieme /vive la scrittura /
di un tempo sottratto alla morte / dalla notte a volte/
scaturisce un operoso silenzio /si ricompongono i
pezzi/ di un diurno insensato / si cerca precari un
equilibrio /sul rotolare delle pietre,
ed ora esserci /(stare (in qualche modo stare) /
accompagnare (in qualche modo accompagnare) /
chi si avvia al grande silenzio,
27 gennaio 2017
adesso taglia con le parole il lembo di pelle rimasto a tirare /
il lenzuolo macchiato /l’orlo che hai tormentato tra le mani /
sciogli finalmente le aderenze che portavi dentro /
scritte dal dolore una ad una /cicatrici sul tuo
corpo,
prima dell’odio / avremmo dovuto stenderci sulla riva
del mare / ad ascoltare attenti ogni singolo suono /
annusare dell’aria l’odore il respiro /il segnale animale /
farci attraversare dai secoli che sembravano alle spalle /
e invece scendevano come cavalli/ galoppando verso di noi /
e zittirci / noi dovevamo zittirci,
un poeta è tale quando intende la lingua /bisbigliata dai morti,
[ti ho visto oggi seduto /nell’incavo vuoto del divano /
tiravi la coperta sulle ginocchia /ti tremava la mano: /
nessuno si è accorto /di quanto tu fossi vecchio
nessuno credeva che tu fossi morto],