Elisabetta Sancino, Collezione privata
Prefazione di Cinzia Demi
puntoacapo 2021
Credo che la dichiarazione di Paul Klee “la couleur me possède“, che l’autrice ha apposto in apertura di questa raccolta di poesie che parlano di quadri, sia la migliore testimonianza di una sua passione bivalente per la pittura e la poesia. Non è facile parlare di quadri, non lo è quasi mai quando si vuole dare un giudizio critico attorno a un’opera specifica, perché necessariamente si deve entrare nella storia di quel particolare quadro inserendolo nel periodo in cui è stato creato, legandolo alla formazione culturale dell’autore e ad altre riflessioni tecniche; inoltre occorre munirsi di un linguaggio specialistico che sappia usare le corrette espressioni a interpretazione di quanto visionato. Ma ancora più difficile è, a mio parere, parlare di quadri utilizzando le poche righe di una poesia, sintetizzarne il contenuto, valorizzarne i colori, entrare nel loro significato e al tempo stesso prendere le distanze dal linguaggio specifico della critica pittorica per indossare – nello spazio di pochi versi – quello sintetico e corposo della letteratura poetica necessario affinché ‘quel’ particolare quadro trasmetta al lettore le sensazioni che gli artisti hanno provato dentro se stessi e poi riportato sulle tele.
Posso dire con assoluta certezza che Sancino è riuscita nello scopo che si era di certo prefissata mettendosi all’opera, e voglio anche aggiungere che numerosi devono essere stati i suoi passaggi nelle varie gallerie e musei italiani e stranieri per poter cogliere con esattezza e precisione tutti i dettagli espressi dai vari dipinti. Le correnti artistiche che si rintracciano in questa galleria privata sono le più disparate, coprono in vario modo quasi tutti i periodi artistici dal Cinquecento ai giorni nostri, e da questi stili così differenti possiamo farci un’idea delle predilezioni dell’autrice, che toccano il Pollaiolo col quadro Donna: un ritratto di profilo di una gentildonna del Quattro-Cinquecento dallo sguardo perso verso l’orizzonte, poi il Mantegna con Madonna dei cherubini ove la Vergine Santa dalla faccia «nello specchio crepato sopra il lavandino» è contornata da uno stuolo di cherubini dall’aria tra il vociante e il sorpreso, e la Madonna è resa con questa espressione sinteticamente bellissima «madre indipendentemente dal seme»; lo sguardo del viaggiatore poi sosta su un lavoro del Bramante, di purezza e veridicità uniche, dal titolo Cristo alla Colonna, del quale l’autrice annota «la precisione della corda rossa che gli lega il braccio, l’oro sulle punte dei capelli, e la grazia fiamminga nel tuo morire senza sangue».
Il viaggio nella pittura del Rinascimento si conclude con un’artista donna (forse la prima degna di essere chiamata tale) del Seicento Artemisia Gentileschi che ha ritratto Giuditta e Oloferne nel quale lo sguardo lubrico di Oloferne si legge dentro le parole che Sancino mette in bocca all’eroina biblica: «ma tu avevi quel modo di guardarmi dentro/ oltre lo scollo della veste», che fa scattare in Giuditta il bisogno di assassinare il satrapo con un atto di estremo rancore degno del “mio abito migliore/ seta blu profilato a pizzo“.
Passeggiando lungo le sale di questa Collezione privata ci possiamo rendere conto anche delle scelte affettive dell’autrice che non sono troppo scontate e non prediligono i pittori di “largo consumo” forse i più noti al grosso pubblico perché più citati dai “media“; infatti degli impressionisti troviamo uno solo di essi, Claude Monet con il quadro Le rive del fiume Epte in primavera e la nostra guida evidenzia con eleganza la nota più caratteristica di questo grande colorista, scrivendo «Le vedi le sponde che vanno in fiore/ smagliando tutto il nero di questi giorni/come amori tornati in vita/ oggi sono la curva odorosa della terra/ la sua pazzia» e attraverso questi versi che esaltano il trionfo del colore e della luce tocchiamo con gli occhi l’amore di Monet per la natura.
L’attenzione è attirata poi da un quadro dal titolo Nudo piangente di Edvard Munch che ha dipinto con stile duro e spigoloso un nudo di donna violentata, che la poetessa descrive così «mi hanno scassinata due ragazzi per bene hanno detto/ sventrata come un muro in un club esclusivo/ […] tramortita di botte come una bestia/ – filmate tutto con il telefonino –/ si sono presi la rosa in me/ piena di grazia e di poesia/ e l’hanno riempita di buio/ il rosso mi cola sulle gambe e il nero e l’indaco/ come un fiume corrotto da me che sono/ Maria figlia di Dio Madre degli uomini/ presa da uomini figli di Dio.»
Dello stesso periodo è il pittore Franz March che con il quadro Füchse coglie una volpe che «ha un timbro roco e rosso/la volpe che scudiscia il grano», preannuncia – servendosi di tratteggi angolati, spigolosi e deformanti – l’apparire di quel brevissimo ma intenso e folgorante periodo della pittura italiana che fu il futurismo di Boccioni e Balla, e del primo dei due sceglie un quadro dal titolo Elasticità nel quale noi accarezziamo con gli occhi il dinamismo della pittura di quell’epoca tesa a valorizzare la velocità e il movimento e, infatti questi versi li descrivono bene “sono un tassello di gioia, un lembo/ nella torsione della zampa/ ho l’odore della polvere pirica.”
Di Balla sceglie Espansione di primavera usando questi versi: «È apparsa qui/ con la sua parvenza da femmina/ reiterata nell’occhio come una carezza/ l’espansione vegetale della specie/ […] per i nostri corpi ancora stecchiti/ ancora fermamente vigili nell’inverno/ sfilacciato ai sepolcri […]».
Quasi contemporaneamente al futurismo esplose il cubismo del quale l’esponente più noto è da sempre Picasso che qui viene presentato con La rue-des-bois dentro le cui pennellate la Sancino legge l’angoscia di un mondo che sta per piombare nella catastrofe della prima guerra mondiale, e questa paura collettiva inconscia è ben incarnata nella tenebrosità strutturale di questa “via nel bosco“. «A volte la notte mi stormiscono foglie/ smisurate in gola/ e la voce nera delle donne/ scese a pelare patate dolci/ evoca orchidee gigantesche/ nel sottobosco di Rue-des-Bois/ dove si dice che la tigre viola/ sia padrona».
Sorvolo sopra altri quadri del periodo successivo, e approdo, in questo ipotetico viaggio, negli anni Cinquanta del Novecento durante i quali esplode la scoperta del colore – non nel senso usato dai fauves negli anni Trenta – bensì il colore puro, inventato dallo stesso Klein citato in apertura di questa mia lettura, un blu mai visto prima di allora, un blu monocromatico usato puro come ricerca di stile quasi fosse un modello filosofico. I quadri che Sancino sceglie sono tre, il primo si intitola Monochrome bleu del quale scrive: «vedi il rettangolo saturo e luminoso/ come un cielo immagazzinato nel torace/ prima o poi/ si sfalderà in germinazioni silenziose/ ma continuerà a splendere; il secondo è Rhodopas di cui leggiamo «E poi in certi giorni d’aprile il cielo/ sospeso sopra la Darsena/ è di un blu Rhodopass/ che ti schianta anche se eri già a terra/ con la testa ficcata nelle rotaie/ blu oltremare la terra le stelle/ le nuvole che non ci sono più/ i pianeti che ti formicolano sottopelle»; e il terzo, Venus Blue, è forse il più corposo di tutti: un ritratto di nudo femminile quasi scolpito avvolto da una forte carica di sensualità (anche se la Venere è priva della testa), che sa vincere la freddezza di quel blu siderale, e di cui scrive: «La venere blu prorompe nell’occhio/ assiderato e lo riempie/ con la sommità dei suoi seni/ offerti senza testa né pudori».
Dopo Klein il passo successivo ci conduce a un altro grandissimo di quel periodo, un artista quasi altrettanto rigoroso nell’uso del colore, capace di perdere intere giornate a stendere sulla tela una campitura sopra l’altra dello stesso prima di dichiararsi soddisfatto del risultato. Sto parlando di Marc Rothko, entrato nella storia dell’arte moderna per avere eliminato il figurativo dai suoi lavori e dipinto usando due o al massimo tre colori, utilizzando sfumature commoventi per la dolcezza delle tonalità capaci di trasmettere al fruitore emozioni e vibrazioni che inducono alla commozione per la loro intensa delicatezza. Sancino ha scelto di mostrarci il quadro dal titolo Untitled, yellow and blue del 1954 con questi brevi versi: «Voglio tutto il blu della terra di marzo/ quel rettangolo impronunciabile dietro la Padana/ dove i vecchi attecchiscono» e da queste parole riceviamo la conferma di quanto la grande arte sia capace di superare ogni limite o confine, trasportando le emozioni di Rothko dalla lontana America alla pianura Padana.
Approdiamo al periodo successivo, detto “informale“, servendosi non di una tela ma di una citazione del pittore che ha inventato la tecnica del dripping (gocciolamento), Jackson Pollock, e Sancino lo fa riportando una sua frase «I don’t paint nature. I am nature», cui fa seguire una poesia dal titolo The action painter nella quale, riferendosi a un lavoro di una sua cara amica scomparsa, scrive: «Monticelli è giallo pieno, zolfo/ oro a rivoli dentro la cavità del dolore/ nei giorni in cui la madre attende/ acquattata la fine apparente/ ma io ti ho vista imbrattare la classe/ a dovere, c’era un che di arcano/ e sublime nel tuo disordine».
La corrente “informale” cui accennavo poc’anzi è ritrovata in un quadro battezzato come molti altri lavori di quel periodo Senza titolo di Giulio Turcato, e preciso – allo scopo di introdurre le parole della poetessa – che in quegli anni italiani la pittura che aveva preso l’avvio dalla corrente americana contemporanea di De Kooning, di Rauchenberg, in Italia era rappresentata dai lavori non solo di Turcato ma anche di Afro, Burri e altri, era caratterizzata dalla scomparsa assoluta della forma la quale aveva ceduto il posto al colore anche violento per creare suggestioni decisamente considerevoli sul piano estetico. Scrive Sancino: «nella sala io mi precipito sempre lì/ dove l’arancio divampa/ proibito toccare la tela/ ma gli occhi a volte sono mani/ che indugiano e carezzano e bucano».
Spazialismo più che il titolo di un quadro in sé vuole intendere una corrente artistica fondata da Fontana nei primi anni Cinquanta che si impose fino agli anni Settanta, della quale l’autrice parla in questo modo: «la mia testa è una geometria precaria/ una sequenza di tagli slabbrati/ dalla fonte alla nuca/ ci hanno installato dei fili/ arabescati, con luci che imperversano/ nella crudezza dei giorni d’inverno», ovviamente riferendosi ai famosissimi tagli nelle tele, che sollevano tuttora domande con risposte che si nascondono nella profondità degli spazi aperti all’interno di ogni tela. Questa corrente intendeva smaterializzare l’arte in modo che il colore, i suoni, il movimento e lo spazio si potessero unificare in una unità ideale, come succede in quanto possiamo vedere nel lavoro puramente estetico, lontanissimo dal figurativo e di un certo realismo battezzato Estroflessione di Enrico Castellani. Ecco come la poetessa ne parla: «l’inverno agonizza nel piazzale/ di fronte alla fermata degli autobus/ senti lo spasmo alla radice del tiglio/ che già si fa appiccicoso/ ha un manto slabbrato febbraio/ non riesce a celare più niente/ vedi la mia anima estroflessa/ come un pugno di narcisi dalla sponda/come i chiodi che spingono in fuori/ da una tela post-moderna».
Il mio viaggio nel territorio della post-modernità si conclude con il quadro Compressione di César ove l’avventura nel reale è espressa esclusivamente utilizzando metallo e plastica. Scrive ancora: «oggi sono un tumulto di metallo e fuoco/ somiglio alla tua voce quanto sussurra/ cose prodigiose dentro il vuoto/ dei miei giorni sempre uguali/ e ricompone le scorie, i frammenti di lingua/ l’estro arrocchito dentro la gola/ mi riplasma in voce piena».
Vorrei concludere questa mia escursione nella collezione privata di questa splendida poetessa andando a scoprire un quadro che non esiste nella realtà ma che lei battezza con il titolo Olio su tela nel quale forse si nasconde un autoritratto del suo subconscio dove essa si vede come artista irrealizzata o forse mai volutamente desiderata, ma in ogni modo capace di apprezzare la pittura fin da quel suo primo approccio a una tela servendosi di una tecnica primitiva un po’ alla Soutine, o addirittura come quella che appare sulle pareti delle grotte a Lascaux. La poesia dice:
ho cavato la mia anima
con un ferro arrugginito
uno di quelli che usa mio padre
quando traffica in garage
l’ho sbattuta come olio su tela
io che non ho mai dipinto niente
nemmeno un fiore o un sole
nemmeno da bambina
e ci ho visto quella faccia
con le sue lesioni primarie
la sua traboccante dolcezza
a volte la rincorro nei sogni
senza mai raggiungerla
© Luigi Paraboschi
Elisabetta Sancino, nata e residente in provincia di Milano, è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne a indirizzo storico-artistico e lavora come docente di lingua e letteratura inglese e guida turistica autorizzata, collaborando attivamente con enti italiani e stranieri volti alla promozione della cultura e dell’arte, tra i quali l’English Heritage e lo Shakespeare Birthplace Trust. Ha pubblicato tre raccolte di poesia, Frammenti viola, 96, rue de-La-Fontaine Edizioni, 2016, Il pomeriggio della tigre, ed. Terra d’Ulivi, 2018 (terzo premio ex-aequo al concorso nazionale Don Luigi di Liegro 2019) e Collezione Privata, Puntoacapo Editrice, 2021. I suoi testi sono presenti in antologie (tra le quali, Il Segreto delle Fragole, LietoColle 2016 e 2019 e La forma dell’anima altrui, LietoColle, 2019), siti, blog e riviste letterarie e sono stati tra i finalisti, segnalati o premiati in diversi concorsi nazionali. Fa parte della redazione del blog letterario «Versante Ripido», dove tiene la rubrica “The Scarlet Letter”, dedicata all’arte e alla poesia, con particolare attenzione alla letteratura dei paesi anglofoni. Attualmente sta curando, in collaborazione con la Biblioteca Civica di Inzago, una serie di Pillole d’Arte e Poesia sulle bellezze storico-artistiche di Milano, giunta alla sua quarta edizione e accessibile in rete.
2 risposte a “Elisabetta Sancino, Collezione privata (rec. di Luigi Paraboschi)”
felice sentire passi di attenzione tanto attenti e delicati quanto vicini
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Ringrazio di cuore Luigi Paraboschi per la sua lettura appassionata e per la ricerca meticolosa di ogni quadro da me citato nella raccolta. Un grazie immenso anche a Poetarum Silva per aver ospitato la sua recensione
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