Alberto Riva, Il maestro e l’infanta
Intervista a cura di Giulia Bocchio
Un romanzo che sceglie la delicatezza, Il maestro e l’infanta (Neri Pozza); un romanzo costruito sulle sfumature, su quel rapporto fra arte, vita e umanità che è poi la linfa essenziale della creazione.
Alberto Riva avrebbe potuto rendere enciclopedica la vita a corte, in quella esotica Spagna del XVIII secolo, per fortuna non l’ha fatto. Ha risparmiato il virtuosismo per concederlo al suo Scarlatti, geniale e sfuggente, per restituire a chi legge un interscambio che è musica, introspezione e denso talento. Aspetti questi, che travalicano il senso del tempo e che aiutano a conoscere i dettagli della storia. Intesa come trama. Intesa come grande libro del passato.
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Alberto, bentrovato. Il maestro e l’infanta è un romanzo storico ambientato nel XVIII secolo. Da dove nasce l’idea di raccontare l’avventura umana e musicale del compositore e clavicembalista napoletano Domenico Scarlatti, maestro di una futura regina?
Dall’amore per la sua musica, che mi porto dietro da almeno vent’anni. Prima una grande ammirazione per l’originalità di questa musica, un certo mistero che sprigiona proprio per la sua originalità anche nel proprio contesto dell’epoca barocca, e da qui l’interesse per il suo autore. Chi era quest’uomo? Del quale, in breve, si scopre che non ha lasciato molto dietro di sé che non fossero le sue sonate. Un genio tanto clamoroso quanto restio a farsi conoscere. Mi ha molto affascinato.
L’avventura umana del maestro è quasi cosa astratta fra le pagine del libro e vive del riflesso di Maria Bárbara di Braganza, la cui personalità rende viva la creatività di Scarlatti, che appare un uomo imprendibile…
Certo, perché indagando Scarlatti ben presto si scopre la presenza di lei: questo incontro, avvenuto dopo il 1720, apre le porte alla seconda parte della vita di Scarlatti, a una sorta di risveglio creativo, dovuto sicuramente alla presenza di lei, lei che poi ha salvato gli esercizi – le sonate – e li ha fatti tramandare a noi. È molto peculiare la demarcazione netta che presenta la vita del compositore, tra una prima parte e una seconda, tutta al servizio di Maria Bárbara.
Maria Bárbara è una figura femminile forte, destinataria e musa, hai intravisto in lei qualcosa di moderno e attuale nel raccontarla?
Non so se si possa definire moderna, ma certamente ci ho visto una donna molto libera rispetto ai protocolli e alle restrizioni della sua condizione: prima figlia del re, poi principessa delle Asturie, quindi Regina. Una donna capace di indovinare il talento dell’artista, forse perché anche lei artista nell’intimo. Ho visto in questa storia i segni del riconoscimento reciproco, la forte personalità di questa donna che riesce a esprimersi, anche nella sua liberalità, tutte cose che me l’hanno fatta sentire vicina.
Il modo in cui viene raccontata la vita a corte dei protagonisti – a Lisbona prima e a Madrid poi, quando Maria Bárbara diviene regina di Spagna al fianco del marito Fernando VI di Borbone – è un ritratto lineare e senza fronzoli che evoca però un forte esotismo…
Ho voluto non affondare nella mimesi d’epoca, ma mantenere uno sguardo distaccato. Non vedo il mio romanzo come una immersione nel Settecento – d’altra parte non lo vedo neppure come un romanzo storico – ma piuttosto come un dialogo con il Settecento: esattezza di descrizione ma nello stesso tempo distanza, riflessione intorno al soggetto. In questo, lo stile secondo me doveva restare il più sobrio possibile, tanta e vasta era la materia da non aver bisogno di alcuna accentuazione, nessuna forzatura. Basta andare vicino a un quadro del genere per farne risaltare quello che lei chiama giustamente esotismo, cioè l’estraneo, il lontano, l’altro da noi. Voglio dire che se l’esotismo c’è, nella materia che ho indagato, allora deve emergere per forza propria.
Esotismo che non manca anche quando Scarlatti riscopre nella sua musica una densità e una forza che sono i gitani spagnoli a infondergli. Fra sacro e profano il maestro comincia a frequentare le taverne della città bassa di Granada, fra polvere e sensuali personaggi…
È un altro aspetto fondamentale di questa storia, ed è la sua musica a metterlo in scena. Ascoltando molte delle sue sonate, che presentano ingredienti di quella cultura – araba, ebraica e gitana, che poi sono mischiate assieme – si entra in questo universo particolarissimo di Scarlatti che io ho visto come un film sonoro, come un teatro che doveva sbalzare fuori. La musicologia vi accenna, ma il romanzo doveva metterla in scena questa parte di immersione nel mondo di al-Andalus, perché è centrale nell’animo artistico del compositore, e io l’ho visto come un rincontro di Domenico con le sue origini siciliane, con il fantasma del padre, ombra dalla quale si è dovuto liberare per riconoscersi come artista. Mi ha interessato molto, a questo proposito, proprio il tema dell’artista che si realizza in età matura, nel flusso della vita, cioè dopo aver imparato a vivere.
Il romanzo è costruito sul non detto, sul languore e anche su una certa malinconia che rende i personaggi estremamente reali, protagonisti di un affresco in costante movimento, esattamente come le note di una lunga melodia, è così che li hai pensati? Musicali a loro volta?
No, devo dire di no. Non è un romanzo che è stato scritto ascoltando musica, quantomeno non quella di Scarlatti. A lui tornavo la sera tardi. Ho pensato a dei personaggi, torno a riflettere, come su un palco, illuminati da luci con un buio attorno che bisognava non esagerare a rendere e illuminare poco alla volta. Le dicevo che non penso a questo come a un romanzo storico, bensì a una formula che io ho chiamato “romanzo da camera”. Se il romanzo storico lo possiamo paragonare a una sinfonia, per dimensione, movimenti, ampiezza, questo mio non lo è: è una cosa che ci sta in una stanza, cercando di evocare al massimo quello che gli gira attorno.
«La musica è dentro di voi, maestà» dice Scarlatti alla Regina Maria Anna D’Asburgo, madre dell’infanta. È un’affermazione che vale per l’arte in genere secondo te?
Sì, direi di sì. L’arte esplode di fronte a noi quando qualcosa in noi la riconosce. Altrimenti non si spiegherebbero le passioni che insorgono anche da molto giovani, improvvise, senza che nessuno ce le abbia inculcate. Da questo punto di vista, penso a questo romanzo come a una musica da camera ma non barocca, bensì di quell’epoca forse erroneamente detta impressionista, Ravel, Debussy. Cioè è una visione tutta interiore, una rêverie.