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Il demone dell’analogia #24: Narciso

«Una strana amicizia, i libri hanno una strana amicizia l’uno per l’altro. Se li chiudiamo nella mente di una persona bene educata (un critico è soltanto questo), lì al chiuso, al caldo, serrati, provano un’allegria, una felicità come noi, esseri umani, non abbiamo mai conosciuto. Scoprono di assomigliarsi l’un l’altro. E ognuno di loro lancia frecce, bagliori di gioia verso gli altri libri che sembrano (e sono e non sono) simili. Così la mente che li raccoglie è gremita di lampi, di analogie, di rapporti, di corti circuiti, che finiscono per traboccare. La buona critica letteraria non è altro che questo: la scoperta della gioia dei libri che si assomigliano.»
Mario Praz

Collage digitale Dina Carruozzo Nazzaro (con ritaglio Narciso di Pat Brennan)
Narciso

Terminata la cena, uscimmo. Mentre i miei due amici procedevano insieme, Wilde mi prese in disparte e mi disse piuttosto bruscamente:
«Lei ascolta con gli occhi, perciò le racconterò una storia.
Quando Narciso morì i fiori dei campi chiesero sconsolati al fiume qualche goccia d’acqua per piangerlo. ‘Oh! – rispose il fiume – quand’anche tutte le mie gocce d’acqua fossero lacrime, non ne avrei mai abbastanza per piangerlo io stesso: amavo Narciso.’
‘Oh! – gli fecero eco i fiori dei campi – come avresti potuto non amare Narciso? Era bello.’ ‘Era bello?’, domandò il fiume. ‘E chi meglio di te potrebbe saperlo? Ogni giorno chino sulla riva specchiava nelle tue acque la sua bellezza’…»
Wilde si interruppe per un attimo…
«Io l’amavo – rispose il fiume – perché quand’era chino sulle acque era il riflesso delle mie acque che io vedevo nei suoi occhi.’»
Poi Wilde buttò indietro la testa con una risata bizzarra, e aggiunse:
«Il titolo è: Il discepolo

da Oscar Wilde. In memoriam di André Gide
(traduzione di Sylvie Coyaud)

 

Dansa di Narcìs

Jo i soj neri di amòur 
né frut né rosignòul 
dut intèir coma un flòur 
i brami sensa sen.

Soj levat ienfra li violis 
intant ch’a sclariva, 
ciantànt un ciant dismintiàt 
ta la not vualiva. 
Mi soj dit: «Narcìs!» 
e un spirt cu’l me vis 
al scuriva la erba 
cu’l clar dai so ris.

Danza di Narciso

Io son nero di amore,
né fanciullo né usignolo,
tutto intero come un fiore,
desidero senza desiderio.

Mi sono alzato tra le viole,
mentre albeggiava,
cantando un canto dimenticato
nella notte uguale.
Mi son detto: «Narciso!»,
e uno spirito col mio viso
oscurava l’erbaal chiarore dei suoi ricci.

da La nuova gioventù di Pier Paolo Pasolini

 

I gemelli  

    Che sente il fiore cui la molle forza
di vita svolge i petali del boccio?
Quel che sentiva allora la fanciulla,
che si svolgea dal calice più bianca
e più sottile, il collo così lasso,
che lo piegava l’occhio di sua madre.
La neve già struggeva, ma non tutta:
se ne vedeva qua e là sui monti.
Spuntava l’erba, verdicava il salcio,
e ravvenate ora mescean le polle.
Era sui monti, era a bacìo la neve
ancora: ella si fece anche più bianca
e più sottile: un pianto nella casa
sonò: poi, la fanciulla era sparita.

     E il suo gemello la richiese al padre
meditabondo. Egli accennò lontano.
E la richiese alla soletta madre,
che gli sorrise, e lacrimò più tanto.
«Sappi: è nel prato asfòdelo… C’è bello…
Lieta, sebbene senza il suo gemello…
No, non è sola, ma tra un fitto sciame…
Un fiore hanno alla sete ed alla fame…
Sì: tu ci andrai… Sì: la vedrai… tra giorni…
Resta con me! S’ora ci vai, non torni!»
Ma il giovinetto andò per prati e boschi,
sempre cercando. Un giorno seguì l’api
a un prato, le ronzanti api ad un fonte.
Nel fonte ritrovò la sua sorella.

     Il giovinetto si chinò sul fonte,
e la fanciulla apparve su dal fonte.
Egli era mesto, ed era, anch’ella, mesta.
Ma le sorrise, ed ella gli sorrise.
Aprì la bocca per chiamarla a nome;
subito anch’ella aprì la bocca a un nome.
Ed egli chiese, chi l’avea rapita,
se lieta le era la solinga vita;
ed ella presto rispondea, ma troppo,
ch’ella parlava mentre egli parlava.
Ed egli tacque, ed ella tacque: allora
egli riprese, ma riprese anch’ella.
E il giovinetto non intese, e pianse.
E la fanciulla si confuse, e pianse.

     Ora una voce chiamò lui: la voce
della sua madre che l’avea smarrito.
«Ci chiama. Vieni con il tuo gemello
dalla tua madre. C’è, con lei, più bello!»
Ella rispose; ma fondea nell’ansia
le sue parole con le sue parole.
«Qui non c’è fiori per il tuo digiuno!
Tu sei nel prato ove non è nessuno!»
La madre ancora lo chiamò. Le labbra
chinò… che freddo in quelle dolci labbra!
Le diede un bacio sussurrando, Addio!
ed un gorgoglio udì nell’acqua: Addio!
E il giovinetto s’alzò su dal fonte,
e la fanciulla sparve giù nel fonte.

    «O madre! O madre! È dove tu m’hai detto!
Ma ella è sola, nel fonte soletto.
Non ho veduto altro che il suo, di capi.
Non ho sentito altro ronzio, che d’api.
Non ha vicine altre compagne care!
Non ha quei fiori per il suo mangiare!
Vieni tu, madre; ella ritornerà!»
«O figlio! O figlio! T’ha deluso un Dio!
Il fior che dissi è il fiore dell’oblio.
E tu non vieni dal fiorito prato
ch’è più lontano del cielo stellato!
A chi ci va, gli è presso, come l’orto;
ma chi ne torna, anche se arriva smorto
a dove dormì, è tuttavia di là!»

     Ma il giovinetto le afferrò la mano,
e disse: «O Vieni, se non è lontano!»
E, giunti al prato, si chinò sul fonte,
e la sorella venne su dal fonte.
Ah! ma nel fonte presso il suo sorriso
c’era la madre col suo mesto viso!
«O madre! O madre! Ecco che lei s’attrista
dacché nel grave tuo dolor t’ha vista!»
«O figlio! O figlio! Io sono lì pur quella!
Non hai due madri! E non hai più sorella!»
E turbò l’acqua. E madre e figlia sparve
oscuramente, qua e là, nel gorgo;
fin che ondeggiando, tremuli, a fior d’acqua
vennero ancora figlio e madre in pianto.

     Ed egli allora oh! sì, capì. Ma venne
per molti giorni al tralucente lago,
a rivedere in sé la sua sorella
che in lui viveva; ed esso in lei moriva.
Ed era il tempo che il nostro dolore
cadea qual seme, e ne nasceva un fiore:
un fior dal sangue delle nostre vene,
un fior dal pianto delle nostre pene.
Ed egli fu il leucoio, ella il galantho,
il fior campanellino e il bucaneve.
E questo avea tre petali soltanto;
e quello, sei, coi sommoli un po’ verdi.
Candidi entrambi, a capo chino entrambi.

     Spuntava il croco, il morto per amore
bel giovinetto. E non fu lor compagno.
E non l’AI AI videro del giacinto
dal vento ucciso. Non fioriva ancora.
Erano soli soli; ché la neve
era sui monti, era a bacìo, tuttora.
E qualche alato, ch’ebbe vita umana
già, come loro, già piangea, ma seco,
sommessamente: o dentro sé pensava
quel pianto amaro ch’è poi dolce canto.
I due puri gemelli esili fiori,
fu breve la lor vita anche di fiori.
Amor fu quello prima dell’amore.
Non, forse, amore, ma dolor, sì, era.

Sparvero prima della primavera.

da Poemi conviviali di Giovanni Pascoli

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