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Il sabato tedesco #30: Ödön von Horváth, Un figlio del nostro tempo

“Il sabato tedesco”, rubrica da me curata per Poetarum Silva, prende il nome da un racconto di Vittorio Sereni e si propone di raccogliere riflessioni, conversazioni, traduzioni intorno a testi letterari. (Anna Maria Curci)

 

Ödön von Horváth, Un figlio del nostro tempo
Traduzione di Nino Muzzi
Castelvecchi 2020

L’ultimo romanzo completato da Horváth prima della sua morte improvvisa (fu colpito, come racconta lo scrittore Danilo Kiš nel mirabile racconto Il senza patria, da un ramo staccatosi da un albero sugli Champs-Elysées durante un nubifragio) a Parigi il 1° giugno 1938, è un’opera che reca i tratti peculiari della scrittura dell’autore, pervasa e arricchita da una teatralità nella struttura e nell’espressione che aveva caratterizzato già le prime pubblicazioni.
I capitoli dai titoli evocativi – La madre di tutte le cose, Il castello maledetto, Il mendicante, In casa dell’impiccato, Il cane, Il figliol prodigo, L’animale pensante, Nel regno dei lillipuziani, Anna, la ragazza del soldato, L’uomo di neve – sono costruiti come scene di una pièce e le battute del “figlio del nostro tempo”, protagonista e io narrante, risentono di una lunga tradizione nel teatro austriaco dell’Ottocento. Nino Muzzi, autore dell’efficace traduzione così come della chiara e documentata Introduzione, fa riferimento, giustamente, a Nestroy e a Raimund, mostrando, tuttavia, come lingua, stile, architettura e complessi tematici di Un figlio del nostro tempo attraversino la tradizione del Volksstück, della pièce da teatro popolare, per andare a costituire un’opera d’arte originale, che resiste a qualsiasi incasellamento in un solo genere.
Interviene dunque, da parte dell’autore, uno smascheramento di quel processo di abbrutimento senza ritorno che ha fatto sì che la “saggezza popolare” dei proverbi e dei modi di dire sia stata manipolata per creare il repertorio delle pillole/stampelle di sapere che reggono l’armamentario della Volksgemeinschaft, la “comunità popolare” di cui si va creando il mito, come Horváth aveva mirabilmente e dolorosamente mostrato fin dalle prime pagine del suo capolavoro, insieme lucido e visionario, il romanzo Gioventù senza Dio.
Di tale armamentario intriso di Bildungsjargon, vale a dire del “gergo istruito” di una classe media di Spießer, di piccolo-borghesi tra i quali sta prendendo piede la retorica di Blut und Boden, “sangue e suolo”, è, allo stesso tempo, complice e vittima il “figlio del nostro tempo”. Già nel 1930 Horváth aveva dedicato alla figura del “piccoloborghese” un intero romanzo, Der ewige Spießer, L’eterno piccoloborghese.
In questo scenario di peregrinazioni, vagabondaggi, illusioni, il “figlio del nostro tempo” si imbatte in una serie di personaggi che fanno parte (così Muzzi nell’Introduzione) di una Theologia angelorum. Latori di messaggi misteriosi, questi bizzarri angeli, diversi tra loro e pur tutti suggestivi, si caricano di simboli e di significati, che si schiudono solo in parte alla comprensione e che, soprattutto nelle versioni angeliche al femminile – la vedova del capitano, l’infermiera grassa e, soprattutto, la giovane cassiera del castello maledetto -, attraggono a sé una grande varietà di  riferimenti letterari e figurativi, da epoche e forme artistiche diverse: il dipinto La dama con l’ermellino di Leonardo da Vinci, la scultura L’Angelo sospeso di Ernst Barlach, la donna con il manicotto di pelliccia nel ritaglio di rivista incorniciato da Gregor Samsa nel racconto La metamorfosi di Franz Kafka.
Le allucinazioni e il tema del freddo, del gelo che accompagna l’intera esistenza, apparentano l’io narrante al protagonista di Fame di Knut Hamsun.

© Anna Maria Curci

 

Sono un soldato.
Sono contento di essere soldato. Quando al mattino la brina copre i prati o quando la sera dai boschi esce la nebbia, quando il grano ondeggia e la falce brilla, che piova o nevichi o che il sole sorrida, giorno e notte – sempre mi torna la gioia quando sto in riga sull’attenti.
Adesso, d’un tratto, ha ripreso senso la mia esistenza! Ero già disperato pensando a cosa dovessi fare della mia giovane vita. Il mondo era diventato privo di prospettive e il futuro talmente esanime… Lo avevo già sepolto. Ma ora l’ho ripreso, il mio futuro, non me lo lascio più scappare di mano: l’ho resuscitato dalla tomba!
(p. 17)

E come mi aggiro nel parco, mi sento più sereno, perché, se non mi sbaglio, dietro al prossimo angolo ci dev’essere uno spazio giochi per i bambini – esatto, eccolo che arriva il mio spazio!
È qui che un tempo hai giocato con la sabbia, prova a ricordare! Ci hai costruito dei castelli e una città – dove sono finiti quei castelli, dov’è finita quella città? La sabbia è coperta di neve.
Tutto è passato, passato!
Arriva una nuova epoca.
Mi metto a sedere su una panchina e chiudo gli occhi.
(p. 116)

 


Scrittore e drammaturgo austriaco, Ödön von Horváth (Fiume, 1901 – Parigi, 1938) è autore di quattro romanzi e numerosi testi teatrali. Trasferitosi a Berlino, vince il Premio Kleist nel 1931 con la pièce Storie del bosco viennese; nel 1937 pubblica il suo capolavoro Gioventù senza Dio. Dal 1933 è perseguitato per la sua opera, e tre anni dopo viene dichiarato cittadino indesiderato: deve lasciare la Germania per Vienna, e Vienna – dopo l’Anschluss – per la Svizzera, Budapest, Parigi. Muore a trentasei anni sugli Champs-Élysées, nel mezzo di un violento temporale. (Dal risvolto di copertina; sul sito di Castelvecchi Editore è possibile consultare le pagine, curate da Alessandro Lusitani e Nino Muzzi, dedicate al progetto di pubblicazione delle opere di Horváth).

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