Un poeta da scoprire: Pasquale Pinto
A cura di Stefano Modeo
Pasquale Pinto è nato a Taranto il 15 aprile del 1940. La sua prima pubblicazione è del 1971, Jonica; seguono In fondo ad ogni specchio nel 1976 e Il capo sull’agave nel 1979. Infine, dopo una lunga pausa, La terra di ferro nel 1992. Di una pubblicazione, Il parco depresso, non conosciamo la data di pubblicazione, mentre grazie alle Edizioni della Provincia di Taranto vengono pubblicati Poemetti nel 1994 e I mari della corte nel 2003.
Lo notano e scrivono di lui Giacinto Spagnoletti, Libero de Libero, Michele Pierri, il quale lo definisce «poeta del macabro fiorito» e la sua poesia come una «ghigliottina sempre pronta a troncare le esaltazioni romantiche». Poeta dalle descrizioni tipicamente meridionali, sull’onda lunga di Carrieri, Bodini, Spagnoletti. Anche Giorgio Caproni scriverà di lui: «I versi di Pasquale Pinto hanno il pregio della genuinità, della schiettezza non offuscata da inutili orpelli o inquinamenti letterari. Un pregio certamente non comune che gli riconosciamo noi abituati a leggere quintali di versi. Dalle ultime raccolte poetiche trovo anzi questo poeta meridionale decisamente in progresso per le immagini che una volta lette rimangono indelebili nella mente. Nella poesia di Pasquale Pinto trovo intero “l’incanto” della sua poetica che porrei in un’area tra Laforgue e Corazzini. Una poesia trasparentemente propria. Un altro punto a favore di questo poeta è la sua modestia: modestia che vuol dire coscienza e quindi maturità intellettuale. Sono certo che (per dirla con una orrenda parola) farà carriera.»
Operaio dell’Italsider di Taranto sin dal 1964, Pinto si iscrive a pieno titolo anche in un filone di letteratura operaia, soprattutto per la sua opera più celebre, La terra di ferro. Un poeta capace di tradurre la condizione operaia in condizione umana attraverso il suo verso breve, tagliente, scarno di figure retoriche, ritmato, essenziale, come la sua produzione. Un uomo dal carattere schivo, solitario, al riparo dalla mondanità e dai corteggiamenti letterari che ci ha lasciato nel 2004 e che merita, infine, di ricevere nuova luce e attenzione.
Oggi io posso vedere
Oggi io posso vedere solo le catene
che si rinnovano nel mare
e le lente lame azzurre
che rodono le dogane
Oggi che le vene del cielo mi portano
uccelli d’acque stanche
trascino occhi alle finestre
alte sulle rotule dei morti
C’è una nudità di rami
C’è una nudità di rami
che cerca il suo sangue in un tramonto
e piume ancora calde
di uccelli senza nome
C’è in un paese rotto dal vento
una porcellana di mattini immobili
che corrono sulle ringhiere dei ponti
Ed una madre
ha ripulito gli spigoli del volto
per sorreggere il figlio lontano
Lettera al poeta Giorgio Caproni
Già un anno è caduto dalle nostre mani
lontane, come queste due lune di aprile;
la Sua una sposa sacrificata al silenzio dei marmi
la mia bianca fontana
che scorre tra le fonti
Una fedele sposa per un poeta
Qui gli uomini hanno parole contate
la pelle artificiale
ed ignorano gli angoli d’argento delle castagne
ove i bimbi hanno muschio nelle laringi
Gli occhi dei bimbi del Sud
sono un sogno anche per questa luna
che incammina i ciechi
col bisbiglio di un’amante
Anche quaggiù si continua
a tirare pallottole al cielo
e si costringono i gabbiani
a posarsi sugli ulivi
Quaggiù mi ascoltano
le vene degli amici
il dovere degli orologi nelle piazze
e questa notte in cui mi accingo
a ridare ogni parola ai miei morti
È nell’ora in cui la ghisa
scende in giallo nelle pance dei siluri
che io vedo uomini senza capo né braccia
prestarsi animo nei riverberi degli altiforni
Lì le aste di colate
sono carne rosa che la ghisa
avverte da tempo senza scomporre le sue vene
Chi parlerà di voi uomini rossi
senza età senza bestemmie?
Chi parlerà dei vostri Natali
accanto alla ghisa lontano dai canneti
ove vivono gli ultimi gabbiani?
Pasquale Pinto è solo un uomo
costantemente denunciato
dai rivoli delle vostre fronti
Gli uomini che lavorano di notte
portano a spasso un odore di vento
che cerca di commuovere la compattezza della ghisa
gialla di malumore
sotto le mille lastre del cielo
Ho visto all’alba un operaio
condire nelle acque degli occhi
grossi pani di acciaio col bianco di una luna
accovacciata sul comignolo di un fumaiolo.
Sono ormai albe che si arrossano di pudore
quelle che dai gialli canali di ghisa
s’avanzano di ruga in ruga
sino ai pugni che battono i catarri
imbronciati dal silenzio del silicio
Nessuno ha più l’erba negli occhi
È tanto tempo ormai
che i fumaioli offendono i tuorli del sole
con la magrezza dei loro tisici respiri
Sarà forse l’ocra di quella colata
a raggiungere le ali di quell’angelo pigro
attardatosi su noi per un miracolo inatteso
o sceso per stringere parole in una mano
ad un operaio in attesa dell’ultima pensione.
Non portarmi cara in quei luoghi indenni
senza storia senza privazioni
squadrati come mausolei senza eco
privi dell’umido dell’infanzia
che mi parlava coi volti terribili
di bestie pronte per l’assalto.
Portami a sera sui lungomari
ove le agavi sopportano le ceneri del sole
e le acque hanno sussulti sotterranei
per le fascine di ghisa affogate ogni mezz’ora.
Per un residuo di delicatezza
tu non ami guardare a sera l’ocra artificiale
che sale dagli altiforni
con tutta l’invidia delle oscure celle delle cokerie
verso i parti sfiduciati dei gabbiani.
È carbone forato nel suo mezzo
quello che scala le ampie bocche dei forni
le ampie bocche che non vedranno mai
palmizi o seni di donne tondi come piazze
ma viaggi interrotti e stridii di rulli.
Come quelle profonde spugne che ristanno nelle acque
e che annotano lacrime di pesci
rimasti senza razza
sono gli uomini che a notte odorano di silicio
e che fissano su taccuini
i matrimoni in bianc
del carbonio con la ghisa.