
Il fondo delle scale.
Era la prima volta che il vuoto non gli faceva paura. Si affacciò, timidamente, lungo la spirale delle scale del condominio, scorse rapidamente le decorazioni impresse nel corrimano in cui si aggrappava, e sputò. Un rivolo di bava calò dalle sue labbra e si infranse nella testa di una scultura collocata proprio al centro dell’androne: lunga, spigolosa e dai lineamenti contratti che suggerivano quasi una smorfia di dissenso, come non approvasse lo spirito del tempo. Ricordava L’uomo col dito puntato di Giacometti, e come la figura della scultura, si fermò con l’indice a mezz’aria, sospeso nel nulla, indicando qualcosa, forse una entità invisibile. Si trovava nei pressi di Places des Pyramides a Parigi: un’altra coincidenza. Cosa ci faccio qui?, perché mi trovo a fissare questo dedalo, il fondo delle scale… forse perché è troppo tardi per rimediare. Sì.
Voleva fuggire da sé stesso, dai suoi vecchi amici, dalla sua famiglia, da lei. Fotografa formata più nei centri sociali che in Accademia. Spiccava su tutti, o almeno per lui, attratto come una piovra dal fondale dal suo septum d’oro, un tenero anello come quelli di Saturno, pendente dal naso come un pianeta nella sua orbita. Ricordo a tratti quello che è successo prima, anzi, a scatti, come una fantasmagoria. Passeggiavo nei pressi della piazza, vicino alla statua di Giovanna d’Arco, dorata come il suo cazzo di piercing. Ce l’ho sempre in testa, è peggio di una ossessione. Camminavo ripensando a quello che avrei dovuto dirle, a come avrei dovuto reagire quando mi spinse contro il muro della palestra popolare Stevenson, e con i suoi anfibi tra le gambe mi gridò “dobbiamo sforzarci di intenderlo, seppur fallacemente!”, sembrava Cassandra. Forse la sua era la prova di una profezia che si autoavvera. Forse era tutto già scritto dal principio dei tempi. Era già stabilito che mi sarei ritrovato qua a Parigi, che sarei passato vicino alla statua di Giovanna d’Arco, in una città spettrale, vuota, circondata dal silenzio assoluto, e che proprio in quel momento mentre attraversavo Places des Pyramides, quell’auto mi avrebbe investito, e l’urto creato mi avrebbe fatto rimbalzare come un fantoccio nella Mostra delle atrocità… Scaraventato dall’altra parte della strada, una volta realizzato di essere vivo, avrei aperto gli occhi, senza distinguere le forme di ciò che mi stava intorno, provando a muovere un muscolo qualsiasi fino a raggiungere un tiepido equilibrio, e solo in quel momento, realizzando di respirare, raccogliendo le poche forze rimaste, mi sarei alzato, barcollando come un morto vivente, correndo col fiato addosso delle Moire verso questo palazzo qui, salito i cinque piani, mosso da una tensione nervosa implacabile e affacciandomi verso le scale, mi sarei liberato di ogni peso, librando verso la vastità delle cose.
Si trovava da anni proteso nello sforzo di capire sé stesso, come Asterione: solo, vanamente teso in una fatica estenuante per uscire dal suo labirinto, ma ermeticamente chiuso nella sua incomunicabilità. Lei aveva sovvertito le sue certezze, fatto gonfiare i suoi polmoni di aria nuova, ma al contrario di lui, era perfettamente integrata nell’ambiente in cui viveva. “Sei un narciso di merda Stephen, ecco cosa sei!”, gli scagliava addosso epiteti indelicati come per smuoverlo dal suo torpore, “con quegli occhiali da primo della classe poi, ma lo vuoi capire che non esisti solo tu, c’è un mondo là fuori!, solo tu puoi liberarti delle tue manie…”. Era vero, ma per capirlo aveva dovuto essere investito da una macchina, come da una luce infinita, e rompere così l’ordine del tempo che scandiva le sue abitudini. Investito da un delirio lucido, si accorse di non avere mai avuto più chiaro di quel momento che cosa avrebbe dovuto fare… seguì il filo di bava nella traiettoria brillante lasciata dalla scia del suo filamento, come un arcobaleno caleidoscopico al tramonto della civiltà, scese di corsa le scale ripensando a cosa avrebbe dovuto rispondere quando Ambra lo aveva accusato di essere una monade, si diresse di fronte alla statua nell’androne, e fissandola con occhi decisi le intimò: Ein Soph!
Omar Suboh è nato a Cagliari; laureato in Filosofia e teorie della comunicazione, ha collaborato, in qualità di borsista di ricerca, con la cattedra di Storia della Filosofia moderna all’Università degli Studi di Cagliari.
Ha scritto per varie riviste, tra cui «il manifesto», il periodico di cinema «Diari di cineclub», il blog letterario “Sul Romanzo”, “il manifesto sardo”, “DROGA Magazine”, e altre. Ha pubblicato due mixtape, Aporia ed Apolide, autoprodotti nell’ambito del genere rap e una fanzine dal titolo “Leggenda Urbana” col nome diem.dedalus”.