Non ci soffermeremo sull’inafferrabilità ormai nota di Thomas Pynchon, che appare piuttosto una riluttanza disinteressata al mero apparire: essere su pagina ed essere sugli scaffali delle librerie di mezzo globo è già di per sé un’esibita presenza.
A parte doppiare sé stesso in un episodio de I Simpson, i curiosi, coloro che cercano l’uomo dietro l’arcobaleno, nella speranza di districare un mistero, rimarranno delusi: è solo schivo – no, niente a che vedere con la trovata italiana “Ferrante” –, riflettori spenti, niente flash e solo inchiostro, studio, molto studio. E un asteroide che, dal 2013, porta il suo nome.
Pynchon è certamente un pilastro della letteratura americana postmoderna, poiché nella sua scrittura sembra esserci uno spazio infinito per una gamma altrettanto infinita di argomenti: paranoie e scienza impazzita, discariche e uomini ingoiati dalla storia stessa, spionaggio. (Se siete lettori ostinati lo apprezzerete).
Tutto sembra essere interconnesso e disordinato: leggere diventa osservazione con Pynchon, come guardare un qualche animale che percorre un proprio labirinto personale sul pavimento, si muove, c’è una ragione che diventa una regione, ovverosia una porzione di spazio che sta a noi interpretare, analizzare o semplicemente attraversare. Mettere il piede sulla mattonella giusta.
Ma per condensare tutte queste idee e farle confluire in romanzi classici occorre un apprendistato, costante-continuo. Quello di Thomas Pynchon, ed è lui a definirlo tale, è stato lento. E non privo di ripensamenti, di voci interiori pronte a sentenziare in coro “davvero l’hai scritto?” – “c’è qualcosa di ingenuo qui” – “Lascia perdere”; e chi scrive sa bene cosa questo significhi, seduti dinanzi le proprie care vecchie bozze, quella tentazione a rimaneggiare, a rifare da capo. Modificare. Chi scrive lo sa.
Un lento apprendistato è dunque la raccolta di cinque racconti scritti da un giovane Thomas Pynchon fra il 1958 e il 1964, quattro dei quali nati durante gli anni del college; solo uno, L’integrazione segreta, è frutto di un lavoro più esperto, ormai indipendente dal tratto giovanile.
Di questa raccolta è però l’introduzione, dove Pynchon commenta sé stesso narratore, sottolineando le sue debolezze, l’inesperienza, i tratti fastidiosi e noiosi che il lettore incontrerà, a essere sorprendente e quindi utilissima.
Onesto Pynchon, così onesto da risultare comunque accattivante, nonché comicamente generoso: l’introduzione è una lezione di scrittura creativa tenuta da un classico vivente che difficilmente riuscireste a prenotare on-line o a trovare in una scuola apposita.
Pynchon chiede al suo lettore di essere benevolo, gli esordienti tendono a essere velleitari e dunque goffi, goffi perché ancora troppo velleitari. Lo è stato anche lui. Buone intenzioni piene di fragilità. Racconta dell’imbarazzo nel rileggersi a distanza di anni, vittima di mode e assiomi; dinanzi al racconto Entropia il suo cuore è ancora costernato. Terre basse lo indispettisce. Anche se temi e stilemi erano dettati dal tempo, dalla politica di quegli anni e dalle prime letture importanti, ovvero indipendenti, quelle non appartenenti alle liste estive dettate dalla scuola, Thomas Pynchon non risparmia il suo esordio alla scrittura, né le cose che un editore oggi non pubblicherebbe mai.
Mi interessava di più mettere sulla carta un’intera gamma di errori. Come lo stile letterariamente verboso. Vi faccio grazia di uno scrutinio di tutte le ridondanze che presentano questi racconti, salvo per dichiarare il mio turbamento davanti alla quantità di viticci che spuntano di continuo.
Non so nemmeno ancora con certezza cosa sia un viticcio. Credo di aver copiato la parola da Thomas Stearns Eliot.[1]
Vano anche l’esperimento surrealista presente nel racconto Sotto la rosa; a differenza di ciò che l’onirico può ispirare, occorre al contrario una lucida sagacia per mettere insieme una storia che possa renderlo tale: lezione imparata solo dopo averlo scritto quel racconto (e soprattutto dopo averlo riletto).
L’introduzione è certamente un passaggio atipico dell’apprendistato di Pynchon, eppure conserva in sé qualcosa di rassicurante, qualcosa che ha a che vedere con il grande potenziale insito in una mente creativa per natura, che modella la parola al pari della materia.
Che sperimenta, cancella e riscrive, sino a trovare finalmente una dimensione riconoscibile. Nel caso Pynchon sappiamo com’è andata a finire: basti dire Gravity’s Rainbow.
© Giulia Bocchio
[1] Thomas Pynchon, Un lento apprendistato, Einaudi, Torino, 2007, p. 20.