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La morte a Palermo (di Paola Deplano)

Eccolo, Don Fabrizio. Incede con olimpica calma nel suo palazzo, tra fughe di porte. Alto, a suo modo bello. Fulvo come una belva, e ugualmente regale. La madre, tedesca, ha risvegliato nei suoi lineamenti chissà quale antico e sopito sangue normanno. Don Fabrizio, da buon gentiluomo del sud, ama le donne e la caccia, e si dedica con successo ad entrambe. Di mezz’età, ma forte e sano. Tutta apparenza. La vecchiaia (e la morte) lo seguono, nei corridoi del palazzo.
Nell’agosto del 1860 il canonico di casa, Padre Pirrone, è il primo a far sentire al Gattopardo il peso dell’età, comunicandogli che la figlia Concetta è innamorata. Tomasi di Lampedusa scrive: «un uomo di quarantacinque anni può credersi ancora giovane fino al momento in cui si accorge di avere dei figli in età da amare».[1] Dopo alcune pagine, però, il personaggio viene descritto come un «civilizzatissimo gentiluomo cinquantenne».[2] Fra il primo episodio, che è dell’agosto 1860 e il secondo, ambientato nell’ottobre dello stesso anno, passano quindi solo due mesi, ma nel primo si dice che il Principe ha quarantacinque anni, nel secondo cinquanta. Certamente una svista di Tomasi di Lampedusa, che morì prima di aver potuto dare gli ultimi ritocchi alla sua opera. Verità lapalissiana, questa, della quale nessuno può dubitare. Ma è ugualmente suggestivo che in questi due mesi, a causa dei capricci della scrittura, per Don Fabrizio siano scivolati via cinque anni. Forse l’autore sentiva che un quarantacinquenne è ancora troppo giovane per sentire la morte vicina. Ma la morte c’è, vicino al Gattopardo. Prima di tutto nel suo giardino, trasformato in cimitero dal cadavere sventrato di un soldato borbonico. Poi nella sua villa che sta cadendo in rovina: il servizio buono che non esiste più e le stanze ormai chiuse, polverose, abbandonate, sono la spia di qualcosa che sta tragicamente cambiando. Persino i possedimenti nobiliari, ultimi residui dell’agonizzante mondo feudale siciliano, stanno volando via, come le rondini.
A quanto pare la decadenza è cominciata molto prima che i Garibaldini sbarcassero a Marsala. E sembra che sia lui stesso, il Gattopardo, a corteggiare la fine. L’ascendente nordico e malinconico della madre lo ha plasmato anche interiormente, non solo esteriormente. Nonostante le donne, la caccia, i piaceri della tavola, è un altro se stesso che il Principe ama di più: l’appassionato di stelle. L’astronomia, algida scienza fissa e immutabile, lo impegna più della cura del suo piccolo regno ormai in putrefazione. Lui stesso decreta la fine del proprio dominio, prima consigliando ai suoi fittavoli di votare “sì” al plebiscito, poi spingendo Tancredi, il nipote prediletto, al matrimonio con una ricca popolana.
Don Fabrizio è l’ultimo, e lo sa. Tancredi gli dice: «Tu corteggi la morte.» E questa frase non lo meraviglia, anzi lo affascina. Muore vecchio, il Gattopardo, nel luglio 1883. Ma a questa morte si è già preparato, con lentezza e voluttà, assolvendo nobilmente il suo ruolo di epigono. Il primogenito non gli assomigliava, e del resto, ormai, è morto; il nipote Fabrizietto, insulso finanche nel nomignolo, è tale e quale ai borghesi; le figlie, inacidite vestali, sorvegliano stupidamente la vecchia casa, ormai solo covo di superstizione e di religiosità deteriore.  Solo Tancredi gli somigliava un po’, ma era, purtroppo, il figlio di sua sorella e non il suo. Non più un Salina, dunque, ma un Falconieri. Tuttavia, se lui avesse sposato la cugina Concetta, qualcosa, forse, si sarebbe potuto salvare.  Invece no. Lo zio stesso, corteggiando non solo la propria fine, ma anche quella della nobiltà, lo ha spinto tra le braccia di una contadina arricchita.  E non, come si usava un tempo, da signore e padrone, per esigere lo jus primae noctis, bensì per sposarla, per sempre, e per generare con lei dei figli principi solo a metà, e per metà bisnipoti di Peppe ‘Mmerda.
C’è più che decadenza, in Don Fabrizio, c’è voglia di morte. Questo deve aver sentito Visconti, mirabile cantore di apocalissi, quando ha deciso di farlo suo.[3]

© Paola Deplano

 


[1] Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1988, p. 73.
[2] Ivi, p. 97.
[3] Il presente articolo è stato pubblicato per la prima volta sul giornale «La voce del Campo» del 16 aprile 1992 e viene qui ripubblicato con modifiche.

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