Éric Chevillard, Sine die. Cronaca del confinamento
Prehistorica editore, 2020
Allora sì, inevitabilmente, tutti gli scrittori in attività tengono un diario del confinamento. Argomento obbligato. Argomento unico. Non ci opprimete. È scrivendo che produciamo i nostri anticorpi.
In questi giorni dai colori ambigui e variabili come gli ingredienti di uno Spritz in cui ci si gioca la programmazione quotidiana in un districarsi tra regole e varianti in attesa della definizione di uno status quo comportamentale quanto meno definitivo (non la chiamerò mai “normalità”) cerco di rimanere saldo e pronto a qualsiasi evenienza. Le modalità sono diverse e non solo dal punto di vista sanitario preventivo, ma mi è sempre molto utile ritornare a recuperare la memoria su quanto ho, abbiamo vissuto da marzo a giugno.
Sembra però che a parte le condivisioni social quotidiane, dal punto di vista espressivo e testuale ci sia ben poco a ricordarci cosa sia stato veramente il Lockdown. Ho come l’impressione che il vivere tre mesi di clausura attraverso la quotidianità simultanea dei social network abbia influito sulla necessità di definire una “storia” di quanto è successo. Da una parte lascio la palla agli storici ma dal punto di vista dell’arte, se la fotografia si è posta qualche dubbio, ha riflettuto su quello che è successo e provato a elaborare le tracce che pandemia e lockdown hanno lasciato (per esempio Paola di Bello o Alex Maioli esposto a “Cortona On the Move, vero e proprio laboratorio e archivio della narrazione visiva del Covid-19), sorge il dubbio che la letteratura sia rimasta abbastanza frastornata e abbia provato a balbettare qualcosa più nella paura di perdersi ma non è riuscita a trovare una sua nuova modalità narrativa per raccontare il confinamento. Mi sbaglierò ma a parte Reality di Giuseppe Genna (Bompiani 2020) e Fenomenologia della fine di Franco “Bifo” Berardi (Produzioni Nero 2020), che è però una lettura politica economica del Lockdown, per il resto ben poco. Dalla Francia giunge, grazie a Prehistorica editore, Sine die. Cronaca del confinamento, un libro di Éric Chevillard, giornalista e scrittore francese che ha raccolto in un volumetto tradotto da Gianmaria Finardi le sue cronache quotidiane dal lockdown francese, scritte tra il 19 marzo e il 22 maggio, prima per «Le Monde» e successivamente sul suo blog personale.
Un libro ventaglio, come lo definisce lui stesso, un libro da cui staccare le pagine e sventagliare l’aria delle proprie dimore e liberarle così dai miasmi che si sono accumulati nei mesi di clausura ma soprattutto un libro che può essere d’antidoto a un anacronistico ma sempre più diffuso scetticismo o tutelante ottimismo e servire così a mantenere viva e attenta la memoria su un qualcosa che potrebbe accadere di nuovo e a cui siamo sempre drammaticamente prossimi ma mai pronti. L’acume narrativo di Chevillard sta proprio nel descrivere con ironica autocritica e sconcerto la diffusa irresolutezza del comportamento sociale di quei giorni, l’impreparazione alla noia, alla rinuncia, alla disgregazione temporale, al rapporto con l’altro, con l’immediato fuori da sé. Ogni capitolo è la sorpresa narrazione di un lento, faticoso e mai risolto adeguamento a una mutazione improvvisa della vita quotidiana. Le stanze, la casa, le mura, animali, piante, insetti, la famiglia il corpo stesso; tutto si rimodella ogni giorno per adeguarsi alla soddisfazione o alla sostituzione di necessità prima impellenti che piano piano si rivelano sotto uno sguardo diverso.
Si annulla. Le riunioni, gli incontri le manifestazioni a cui dovervamo partecipare: annullati. Annullata la festa, annullato il matrimonio. E contrariamente a quanto sosteniamo, con la mano sul cuore, non rimandiamo nulla. Basta con questa ipocrisia dilatoria: si annulla! Pazienza per la Palma d’oro che doveva ricompensare il film sulla mia vita, ho appena disdetto l’appuntamento per Cannes.
Il “mascheramento”, l’esercizio fisico, la scuola a distanza, la cucina, l’arrivo della primavera, i tic, la compagnia (Lachesis prima fra tutti); tutto viene affrontato e descritto ironicamente nelle sue mistificazioni ne nasce così una riflessione amara sull’incapacità di una società ad affrontare il confinamento repentino e la necessità di definire improvvisamente un tempo e uno spazio personale più circoscritto.
È ovviamente una bella tegola anche per tutti coloro che si ripromettevano di approfittare di una repentina e inverosimile stasi temporale, di una disponibilità improvvisa e prolungata dei loro giorni e delle loro forze per darsi alla passione inconfessata o abbracciare la vocazione contrariata. Allora ci si metterebbe a suonare la chitarra, allora si imparerebbe il finlandese…
Vi consiglio nelle pause di lettura di cercare su Vimeo “Afuera”, il video che il fotografo venezuelano Luis Cobelo ha girato da un terrazzo di Barcellona negli stessi giorni e ritroverete le stesse atmosfere, le stesse dinamiche, la stessa lentezza gestuale di esseri impreparati e inadatti alla mutazione improvvisa. Segno del bisogno di nuova riflessione antropologica da cui anche la letteratura non può esimersi o fuggire.
© Jacopo Ninni