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Sergio Sollima, La poetica della “doppia vista”

La poetica della “doppia vista”

La mia riflessione su alcuni aspetti e alcuni momenti di poetica leopardiana prende spunto dal seguente pensiero dello Zibaldone: 

«All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.» (30. Nov. 1828 I.a Domenica dell’Avvento.). V. p. 4502.

Nel brano si possono individuare tre parole-chiave. La prima si presenta in triplice modulazione: “immaginoso”, “immaginando”, “immaginazione”.
L’immaginazione è un tema che ricorre spesso nell’officina dello Zibaldone.
Dell’immaginazione si dice che ritrova i rapporti e le armonie più nascoste, che è propria degli antichi, il primitivo dell’umanità, e dell’infanzia, il primitivo dell’uomo. Il poeta conserva la capacità d’immaginazione, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita. Quando ci si avvia su alcuni sentieri del pensiero leopardiano, ci si imbatte, prima o poi, in considerazioni sorprendenti: sempre a proposito dell’immaginazione, si dice che non può esserci grande filosofo o grande scienziato –  scopritori di verità – che non sia mosso dall’immaginazione: che è, quindi, anche sorgente di ragione. Omero, Dante, Pascal, Newton appartengono alla stessa famiglia dei grandi immaginatori. Ancora: l’immaginazione si compiace del circoscritto, è pervasa da un sottile masochismo legato alla percezione della limitatezza. Quasi tutti i piaceri dell’immaginazione consistono in rimembranza o nella proiezione nel futuro: il presente non illude, il presente non può contenerla. Poi il tema del viaggio: chi non si è mai mosso avrà rimembranze di cose lontane nel tempo, mai di luogo. Chi ha viaggiato ha maggiori opportunità di nutrire la propria immaginazione.
La seconda parola-chiave è “doppi”.
La poetica che è stata definita della ‘doppia vista’ si basa sulla possibilità di percepire negli oggetti una dimensione “altra”. In un saggio di alcuni anni fa (Micromega, 5/2002) Remo Bodei si sofferma sul rapporto fra sensi e immaginazione: «Proprio perché tutti i sensi sono limitati […], l’immaginazione integra per absentiam le loro deficienze. Se i sensi fossero in grado di penetrare dappertutto, l’immaginario non esisterebbe». Ancora: «È infatti la negazione o il restringimento delle percezioni sensibili a creare un mondo complementare […] a quello immediatamente esperito tramite la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto.» Lo “spazio immaginario” viene poi definito come uno spazio concavo, ripiegato sull’ interiorità e sulla forza immaginativa, in qualche modo antitetico rispetto allo spazio convesso, volto all’esteriorità e alla percettività sensoriale.
La terza parola-chiave è “trista”.
Triste, povera la vita poetica – ma anche la vita in generale – senza immaginazione.
La dimensione estetica del vedere e del dire poetico è quasi sempre connessa alla dimensione eudemonistica, alla ricerca della felicità. L’anima si mostra insofferente nell’essere inizialmente ostacolata dalla inadeguatezza percettiva dei sensi, nell’assecondare lo sguardo “convesso”. Ma è proprio questo il momento fondamentale in chiave eudemonistica: l’immaginazione s’infligge il tormento del limite per superarlo. In questo è la felicità concessa, in questo la vita “trista” diventa vita ricca e felice.
È ora il momento di soffermarsi sulla data del brano, che è il 30 novembre 1828. Si parla di silenzio poetico nel periodo 1822-1828. In questi anni Leopardi scrive gran parte delle Operette morali. Siamo nell’ambito di una poetica che tende verso una letteratura moderna, filosofica, la sola concessa agli uomini, in un tempo che ha smarrito il conforto delle illusioni. La poesia di questo periodo è affidata a Alla sua donna (1823) e all’Epistola a Carlo Pepoli (1826). Nel maggio del 1825, in una Lettera a Giordani, fra l’altro si dice: «Non cerco altro più fuorchè [sic] il vero, mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire». Nell’Epistola al conte Carlo Pepoli (marzo 1826), compare il tema classico del makarismòs: fortunato colui che non perde la caduca virtú [sic] del “caro immaginar”. C’è poi il tema del congedo dalle illusioni: le dolci illusioni della giovinezza vengono a mancare, le preziose immagini, tanto amate, cominciano a dileguarsi, il cuore s’inaridirà sempre di più, verrà meno il conforto della poesia. Infine il tema dell’“acerbo vero”: il poeta svuotato d’ispirazione si ridurrà a investigare la triste realtà, gli oscuri destini delle cose mortali. Ma anche qui Leopardi ci sorprende: il vero, una volta che lo si sia conosciuto, benché triste, ha i suoi diletti. Si prova un ineffabile piacere anche nell’indagare la triste verità.
Nell’aprile del 1828 Leopardi scrive Il Risorgimento. È il riemergere della sensibilità: tornano le immagini della fantasia, i palpiti del cuore, torna la poesia, che di quei palpiti si nutre trovandovi la sua essenziale ragione di vita. Il ritorno a Recanati, nell’autunno del 1828, dove tutti gli oggetti, i luoghi, i contesti naturali riportavano alla luce il mondo della giovinezza, fatto di speranze e di illusioni, fa nascere poesie di straordinaria suggestività: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Il poeta moderno torna a rievocare il proprio “primitivo” – in cui è il prodigio di una maggiore vicinanza con la natura – ovvero l’infanzia, la giovinezza. La vita – o, per meglio dire, l’esistenza – è un inesorabile cammino verso la morte, un succedersi di sofferenze di ogni tipo ma in questo deserto emotivo continua a sbocciare il fiore del ricordo dell’unico periodo felice, l’infanzia, l’adolescenza, quando ancora era possibile coltivare speranze e illusioni. La scoperta dell’acerbo vero rende consapevoli della natura ingannevole delle illusioni ma non può impedirne la struggente rievocazione. La ragione ha smascherato le illusioni, la poesia non può non nutrirsene. Si resta affezionati alle proprie illusioni, come a volte si resta affezionati a un amore finito: la natura più profonda della poesia, e forse della vita stessa, è in questa suprema mistificazione, nel custodire la dimensione salvifica dell’immaginazione e della “doppia vista”.

© Segio Sollima

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