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Raffaele Castelli Cornacchia, “La zona rossa”

Raffaele Castelli Cornacchia, La zona rossa
transeuropa 2020

Ho letto la prima volta la nuova raccolta di poesie di Raffaele lo scorso agosto. A colpirmi subito è stato il peso specifico della testimonianza in poesia del vissuto durante la pandemia; un vissuto doloroso raccontato nei particolari. Quel vissuto che già si faceva monito e che ora, in queste ultime settimane, mostra tutta la sua attualità sbattuta in faccia a chi continua a negare, a minimizzare. Scivolare nella retorica è facile quando si affronta un tema di questo tipo in poesia; ma Raffaele non ha scelto, non ha cercato, non ha voluto: ha dovuto affrontare la realtà e per spiegarsela ha utilizzato la lingua che gli è più familiare, quella poetica. Anzi, la lingua per prima mostra la fragilità umana nel momento in cui cerca di comprendere, contenere, arginare il momento vissuto che ancora non conosce parola («Ogni scena un copione e noi/ spettatori di oggi la vediamo/ vediamo le sembianze della bestia/ e pensiamo privi delle parole:/ senza quelle parole appropriate»; Le parole appropriate). Ed è questa la ragione prima di un’ambiguità del discorso che a volte rende tutto inafferrabile al lettore, disorientato da tanta schiettezza che, prima di ogni orpello, rende opaca la realtà. Ma sfido chiunque a dirmi che tutto vi è stato chiaro allora come sfido chiunque a dirmi che tutto è chiaro ora. L’unica certezza è la fragilità dell’uomo, dell’individuo. Ed è questa fragilità ora a essere esposta.
La zona rossa (transeuropa, 2020) non ha nulla a che vedere con l’emorragia di “poesia al tempo del Covid-19” alla quale tutti noi abbiamo ceduto nei lunghi giorni di confinamento («Non c’è ordine nella bellezza, e/ t’illudi d’avere delle idee/ e le digiti sopra un foglio, ma/ il tuo pensare non è un germoglio/ si rivolta sterile su se stesso/ costruisci effetti per la gente/ e il tuo tratto non ha contorno:// Non sai dipingere con le parole./ Proponi sentimenti inutili/ persi in alfabeti. Questo fai […]»; lucida riflessione – questa consegnata a Occidente, ali – che nel colpire sé stesso, non risparmia un’immagine ben più ampia quanti si sono sentiti in dovere di scrivere senza interrogarsi prima sul perché scrivere. Una riflessione che trova una eco anche in questi altri versi: «E cancellale tutte quelle facce/ tutte quelle maschere di bellezza/ domiciliate in sguardi preziosi/ visto che, parliamoci chiaramente/ non è il loro sguardo che ti serve./ Quello che ti serve è quella fiamma/ quel vapore che sale dalle note/ che puoi ascoltare ad occhi chiusi/ se per fortuna qualcuno ti legge»; Bella faccia).
Raffaele, senza quasi nominare direttamente il virus, ce ne parla dall’interno: come malato e come impotente spettatore della morte della madre. Il dramma che molti negano, e riconducono ad altro, è qui messo nero su bianco con rabbia e dolore, senza tentativi di edulcorare il discorso o di renderlo più bello perché «a vedercelo il bello in tutto/ riprendiamo a elemosinare/ perle dai mendicanti di servizi/ come dei raminghi senza diritti/ come dei servimuti ai mercati» (Qui). La verità sul sentirsi abbandonato da tutti e da tutto: dal sistema sanitario che dovrebbe assisterti, e che invece ti lascia solo con ciò che non conosci e che sa uccidere; dal quotidiano che non è più tale e che non sai cosa sia diventato.
Colpisce il fatto di avere posto la pandemia a cornice e non averla resa protagonista: la pandemia non è la causa del male dell’uomo contemporaneo, ne è un effetto, una conseguenza. La dispersione dell’umano è iniziata prima, quando si è parcellizzato in effimere apparizioni virtuali e in essere si è moltiplicato a dismisura per appiattirsi in quell’unico indistinto che ha ora mostrato tutta la vacuità. Il silenzio di quei giorni ci sarebbe dovuto essere utile, avrebbe dovuto mostrarci la via per ritrovare il bandolo della matassa; ma così non è accaduto, come ben vediamo ora. E queste poesie ci dicono proprio questo: «Il caos era stato evitato/ ci aspettava un’alba terrena/ una vita tutta da inghiottire/ però rimaneva una minaccia/ un tubo rimosso troppo in fretta/ qualcosa che sfuggiva all’udito/ e non era tanto la pandemia/ l’eventualità di una ricaduta/ quanto quel riprendere dall’inizio/ come dopo la prigione dell’oca […]»; questo ci è detto sin dalla prima poesia Sul tavoliere dell’oca.
Sicché in queste ore, ciò che sarebbe potuto essere la poesia di un periodo lasciato più o meno alle spalle, diventa monito per il presente verso l’individuo che continua a essere assente a sé stesso: «Ma che gusti avrete mai, voi oggi/ senz’alcuna prudenza d’intelletto/ e senza memoria dei vostri atti/ solo, quella voglia, di normalità./ Quella smania di cambiare le cose/ di cercare di essere migliori/ e di non rifare gli stessi sbagli» (Arruolati alla folla).

© Fabio Michieli

 

Esser fatti di pietra

.  Era meglio esser fatti di pietra
con i suoi suoni, e il non sentire
il dolore, e il tempo che passa
con tutta la forza, della terra.

.  Bruneggiava, come tutte le sere
pigro, ordinario e quieto
ad ascoltarsi l’ulteriore giorno
nella conta, per chi sa indugiare.

.  Se comparvero sembianze, sembrava
come pareva guerra, a parole
e una mantiglia ci ricopriva
come a ripararci da qualcosa.

.  Equidistanti, l’eden e l’averno
ci restavan i conti di noi stessi
scarpe senza piedi, portoni chiusi
e, come un viatico, la bestemmia.

.  Ormai certe le colpe sconosciute
e di quei versi solo la bocca
con il distacco, e la diffidenza
a dire dei sani e dei malsani.

.  Esser viventi e non viventi
la groppa china e mani, gli occhi
savi di una bestia indulgente
che ronza, striscia. Punge per paura.

.  Era meglio esser partiti prima
con i suoi suoni, e il sentir bene
il piacere, e il tempo che passa
con tutta la forza, della terra.

 

Il doppio filo di seta

.  Quello che dorme, e quello che sogna.
.  Sono due volte la stessa persona
come due bachi che collaborano
sbavando sul medesimo bozzolo.

.  Sto nella sala d’aspetto d’un sogno
e attendo di partire, intanto
mi costruisco da me la panchina
dove sto seduto e i binari
e anche il treno mi faccio da me
e pure i passeggeri in fila
che viaggeranno con me dove vorrò.

.  Un sogno comodo, da veri stronzi
come son poeti e sognatori
che in sogno non stanno mai fermi
e dev’essere colpa del sapere
che non sai che accade a muoversi
ma sai che succede a stare fermi
non cambia nulla, si chiama incubo.

.  Sbavano sul medesimo bozzolo
a fare il doppio filo di seta.
.  Magia imperfetta e pregiata
del legame fra sogno e realtà.

2 risposte a “Raffaele Castelli Cornacchia, “La zona rossa””

  1. Per quanto mi riguarda testimoniare il vissuto dello scrittore ha senso se in quel vissuto il lettore si può perdere o ritrovare. La realtà certo può stare stretta a volte e ognuno è libero di trovarci dentro le proprie verità, così come dietro alle apparenze della medesima realtà si può far fatica a riconoscerne verità e finzione. Ci sono però momenti e fatti che vanno descritti, con le tecniche specifiche del mezzo scelto (in questo caso la poesia), per quel che sono senza infingimenti e dissimulazioni; dove gli effetti speciali devono essere la forma e non la sostanza. Dove la ricchezza del dibattito non sta nel mezzo usato ma nella sua articolazione e nel confronto dialettico che ne può, e deve, nascere. Altrimenti si riduce tutto, anche quando di qualità, ad uno sterile esercizio di stile. Il quale, preso come tale, risulta essere meno rischioso di ogni poetare “impegnato” o che dir si voglia (le etichette non servono ma per capirsi bisognerà pur coniare un termine nuovo) perché non si deve misurare con l’evidenza dei fatti: soggetta alla retorica, all’assuefazione e allo sfinimento. Ma la vita è anche questo, se la poesia è vita. Quindi sì da un lato butto giù il poeta dal piedistallo ma, al contempo, nel mio piccolo voglio rendere una rinnovata importanza alla parola poetica d’impegno “civile” (e qui peggioro la situazione: davvero dobbiamo coniare definizioni nuove). Non per renderlo più fragile ma anzi, così come per l’uomo o la donna che ci stanno dietro, al definirsi poeta, per rafforzarsi nel reciproco rapporto con gli altri, con i fatti e con la società che questi fatti li genera e li subisce. E ci tengo a sottolineare che tutti hanno diritto di dire tutto di tutto, ma che mai come nei momenti di crisi abbiamo bisogno di competenza e di esperienza e, quest’ultima, è frutto del vissuto e non dello studio e dell’analisi speculativa. E qui, come lascia ben intendere Fabio Michieli, protagonisti non sono né la voce narrante né la pandemia in sé ma le persone tutte, che io riconosco in questa nostra società bella e malata. E in tal senso allora la poesia si fa anche monito, certo, senza vergognarsene. Sporcandosene le mani magari.

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