
Quando anni fa, all’interno di una conversazione sulla poesia, mi chiesero un parere sulla scrittura di Raffaela Fazio, io restai zitta e ferma come un geco. Probabilmente non feci una grande impressione, ma non avevo trovato una maniera – una maniera che non fosse pesante, almeno – per dire che leggerla aveva somigliato a quelle esperienze antiche che imponevano a chi ne usciva di restare (etimologicamente) muto.
Più probabile l’ipotesi di non aver lasciato una grande impressione, ma il tempo mi ha dato aiuto nel suo soffiare la patina di sortilegio e aprirmi l’ingresso di queste poesie.
Raffaela Fazio non si legge al volo prima di uscire di casa con ancora in mano la tazza di caffè. Per leggere davvero le sue poesie bisogna reimparare la lingua, per la perizia di acrobata dei suoi versi che non è mai ostentazione di bravura ma sempre tentativo di architettare il concetto nel modo più esatto possibile. Così come appare incredibile che esistano ancora linee melodiche da scoprire, così nelle poesie di Fazio non c’è ombra di déjà-vu: ogni poesia sembra conoscere tutte le poesie precedenti, proprie o altrui, e da lì organizzarsi verso una musicalità nuova e una piena originalità di significato. Il che (il montare sulle spalle di ogni poesia precedente), essendo ovviamente impossibile, ci appare come un dono. C’è della grazia che fa capolino sotto i nostri occhi, e appartiene più al lavoro di un compositore musicale che a quello di un poeta, pure nella sua semanticità.
La prima volta che lessi una poesia di Fazio, molto tardi, un paio d’anni fa, la girai a una persona che stava vivendo un momento di forte paura e grande dolore. È l’ultima tra le cinque poesie scelte. Mi sembrava che quella poesia penetrasse non il senso di una vicinanza specifica o universale, non i nostri modo e maniera di attestarci amorevoli, né lo spettro delle cause possibili di un legame: mi sembrava che penetrasse l’idea e il sentimento del legame nella sua purezza. Ed è impressionante, scorrendo i suoi libri, scoprire quante sottoparole potrebbero essere inventate per i sentimenti e le esperienze umane nello scandagliamento delle loro sfumature. E questo perché la poesia di Fazio è poesia di intuizione più che di erudizione, figlia di un’intelligenza della mente e del cuore che non ha paura di partire all’esplorazione come una nave senza sbaraglio. All’approdo di esperienze che non hanno parola altra che la sua poesia.
© Giovanna Amato
In fondo
Miei ospiti nel sonno
alcuni sconosciuti
istinti a mia insaputa
e voci che si appartano
in cenacoli dimessi.
Da sveglia passo il guado.
Non vedo chi mi vede
non solo se è alle spalle.
E quando arrivo a valle
la conta dei ricordi
risulta insufficiente.
Così cercando me
dentro di me
e me qui dentro al mondo
non so chi delle due
mi è più cara, né chi
mi è in fondo più distante.
*
Maldestra memoria
che chiedi al tempo di posare.
I tuoi bozzetti sono pieni di lacune
se il solo modo di riuscire
è abdicare:
prostrarsi
e poi dipingere dal vero.
*
Caccio di frodo il bello
ma più ancora lo sgomento
lo scorcio mai invocato
l’ultimo scatto del grimaldello.
Confesso, ho peccato:
col tempo soprattutto
perché la mia pazienza
non è nelle parole.
Non so tenere il passo
con il giorno, seguirlo
in narrazione.
E non capisco
la fine cosa sia. Così
mi hanno chiamata:
Poesia.
*
Dolore, ti riconosco
dal volo circolare.
Non mi importa
da quali altezze provieni.
Né voglio sfuggire
al becco che si allunga
verso la memoria.
Si dice che da dentro, dal cuore
la preda ti implora, che da dentro
comincia la sfida.
Ma è là dentro
che ti lascio sfamare.
E da fuori mi sforzo.
È da fuori che inizio la lotta
con la piega che taglia la bocca.
Io la incurvo al sorriso. La esploro.
E lo so, non mi sbaglio.
Le mie labbra
avranno la meglio.
*
(a mia mamma)
Antico pudore del dire.
Ma so che sarai
il mio ultimo pensiero
senza fiato, senza peso
in cima alla salita.
Il filo di luce
sotto la porta chiusa.