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“L’umana ferocia” di Giorgio Anelli. Nota di Valerio Ragazzini

Giorgio AnelliL’umana ferocia
Kolibris 2017

Immagina di essere intrappolato in un paese meraviglioso
dal quale non puoi scappare nemmeno a volerlo.
G. Anelli

“Non esistono libri morali o immorali come la maggioranza crede. I libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto”. Così scriveva Oscar Wilde nella prefazione a Il ritratto di Dorian Gray. Fino a una certa età mi trovavo d’accordo con lui, ma crescendo e leggendo, mi è capitato di incontrare libri che non rientravano in nessuna di queste categorie.
È trascorso un anno da quando lessi per la prima volta L’umana ferocia (Kolibris, 2017) di Giorgio Anelli (Busto Arsizio, 1974), e un anno fa circa ebbi la prima impressione di trovarmi proprio davanti a un libro inclassificabile, almeno per quanto riguarda le categorie suggerite da Wilde. Poi, sempre a distanza di un anno, il libro viene tradotto e pubblicato dalla Buenos Aires Poetry. Quanto segue è un’opinione tutt’altro che “a caldo”, una riflessione lunga, non solo per comprendere il libro, ma per capire prima di tutto come mai aveva lasciato un segno dentro di me. Forse perché spesso i lettori cercano nei libri una qualche consolazione, una parola amica, qualcuno che li capisca. Ma i letterati non sono una mensa di santi a cui sedere e mangiare finalmente qualcosa di commestibile, e L’umana ferocia incarna bene il concetto di una letteratura indigesta, non commestibile, senza consolazione.
La prima volta che L’umana ferocia di Giorgio Anelli attrasse la mia attenzione, è stato per via di una vecchia lettura a me molto cara. Avevo già incontrato la ferocia nelle pagine di Andrej Platonov (1899-1951). I racconti di Platonov contenuti in Il mondo è bello e feroce (raccolta che prende il nome da uno dei racconti) non lasciavano scampo: quella realtà sovietica, troppo triste per essere veramente compresa da un ragazzo degli anni duemila, era magistralmente resa dall’autore. Platonov sapeva bene cos’è la ferocia, l’aveva provata sulla sua stessa pelle. Provate ad immaginare cosa può esserci di peggio che finire rinchiusi in un gulag e subire tutte quelle privazioni, quelle degradanti torture che riducono i corpi in tizzoni e le menti in mangime per uccelli. Peggio di finire là dentro per colpa delle tue idee c’è solo una cosa: che ci finisca tuo figlio. Toška, il figlio quindicenne di Platonov, venne deportato il 29 aprile 1938 presso il gulag di Noril’sk, Siberia settentrionale, e rilasciato soltanto due anni dopo malato di tubercolosi; morì due anni più tardi. A quel tempo lo scrittore aveva già completato molte delle sue opere per cui oggi è ricordato, attraversando la burrasca della censura sovietica e le pubbliche diffamazioni ad opera dell’intellighenzia di regime. Ma deportare suo figlio per inibire la sua opera letteraria, quasi non fossero sufficienti le ingiurie e le vessazioni, rappresenta qualcosa di decisamente feroce, di efferato.
Mi sono allora fermato a riflettere: nessuno potrà darci conto di una realtà così seria, così tremenda, dopo Platonov. Paragonate alle sue sofferenze, le nostre spariscono, e questo accade quando ci confrontiamo con molti autori del Novecento. Se quella di Platonov è la realtà, la nostra è solo un cartone animato.Eppure qualcosa non torna.Soprattutto per chi scrive, oggi è difficile riuscire a guardare l’attualità. Anzi, è quasi impossibile. Si è costretti per lo più a mentire, forse per quel carattere consolatorio che molti cercano nella lettura, e lasciare fuori tutto ciò che ci offende, i suoni, i fetori, le pubblicità, la cronaca, le persone in generale e una serie apparentemente infinita di altre cose. Sempre più spesso cerchiamo quindi di innalzare delle barriere, degli scudi contro le offese che piovono sulle nostre vite, creando dei luoghi inviolabili, dei piccoli santuari di carta entro cui trincerarsi. È allora che fioccano libri d’amore, storie appassionate, romanzi pseudostorici, libri di poesie colme d’albe dorate e settembri uggiosi, di mali struggenti e sentimenti profondi. Gli scrittori sembrano incapaci di accettare, e quindi fronteggiare, l’immane mediocrità che ormai domina gran parte degli aspetti della vita. Presto o tardi, anche per la letteratura arriva il momento di fare i conti con lo squallore, anche se la legge del mercato pare abbia inibito il suo potere profetico.
Ecco però che ti capita fra le mani un libro come L’umana ferocia di Giorgio Anelli. Cosa può dirci un poeta nostro contemporaneo sulla ferocia della società?
Tanto per cominciare, ce lo dice con una poesia che non è poesia, disadorna, metropolitana, a volte sconfinando nella prosa; già qui incontriamo un primo problema: come racconti, oggi, quello che ti sta intorno? Quello che ti angoscia? Ha senso usare ancora mezzi termini, allusioni o metafore? Anelli pare si sia sbarazzato di tutto questo, il suo libro si presenta nudo, non solo esteticamente, ma anche nella forma dei suoi componimenti. Poi, l’aggettivo “feroce” è di solito riferito alle belve, ad indicare quello stato di natura che trova il suo cardine nella sopravvivenza. Ma l’umana ferocia non ha nulla a che vedere con gli animali. Anzi, è esattamente all’opposto. La ferocità dell’uomo ha a che vedere sì con la sopravvivenza, ma non con la natura. La ferocia del libro di Giorgio Anelli non contiene la violenza di un figlio strappato o delle torture da campo di concentramento, non è una crudeltà evidente. È la ferocia sorda che entra come un sibilo dagli infissi vecchi del nostro appartamento. Anelli se ne sta seduto in uno squallore cittadino, incapace di credere che agli altri vada bene così; perché la rassegnazione che emerge dalle pagine non è reale. Tra cronaca nera, maltrattamenti ad anziani bambini e disabili, madri degeneri, figli che ammazzano padri e padri che ammazzano figli, come si fa a dire che va tutto bene? Come si possono cantare le albe e i tramonti? Come dice Anelli, non si riesce a fuggire da questa meraviglia nemmeno volendo: questa porcheria ricoperta di oro ti seguirà sempre, perché ormai è dappertutto. Non c’è niente di peggiore che stare male al mondo mentre tutti stanno bene (o fingono di star bene), mentre tutto introno a te grida benessere; tutto questo può portare un uomo a credere di essere sbagliato.
Ecco, forse è proprio qui la ferocia contemporanea: far credere agli uomini liberi di essere sbagliati, di non aver nulla a che vedere con la normalità fatta di reality show, “apericene” e mutui per le vacanze. Davanti a noi c’è un domani fatto solo di “piccoli negozi cinesi, massaggi cinesi, prostitute cinesi”. La volontà di vivere in un mondo migliore è soffocata dalle (mi si permetta di dirlo) cazzate: facce rifatte dentro i televisori, tormentoni estivi, ‘scontissimi’ al supermercato, vacanze da sogno, youtuber, diete miracolose, olio di palma, poetesse femministe, ecc… “Oggi si muore e basta”. Oggi assistiamo ad una tale stratificazione di superficialità che a volte mi domando se valga ancora la pena sperare di trovare un briciolo di verità. Queste ‘cazzate’ sono manifestazioni dell’oblio più profondo. Tutto questo ha a che fare con la nostra morte più di cento, mille cimiteri. Allora nella poesia di Anelli entrano perfino il Maurizio Costanzo Show e una manciata di antidepressivi, come faro assoluto del trash, del qualunquismo, del nulla.
E se Platonov si sentiva pensatore libero in uno stato che governa per mezzo della ferocia, Anelli si trova in uno stato libero che ha eliminato con la ferocia ogni alternativa possibile al raggiungimento della felicità. Qui l’umana ferocia si fa impalpabile; perseguita le sue vittime fin dentro i loro letti, sempre, a tutte le ore, in modo indistinto, sfregandosi contro i loro desideri e le loro ansie. Sparge offese nell’aria rarefatta delle grandi città e via via si perde per tutto il paese. Cosa resta al poeta, all’uomo, se non perseverare? Dove tutto è utilità, dove tutto è mercato, troverà il poeta la forza di restare tale, di continuare a battere il suo tamburo lasciando perdere le albe e i tramonti? Gettare una mano nel buio e stringersi, perché non c’è altro da fare. Per i poeti non c’è consolazione: questa sia per loro, forse l’unica vera consolazione. Non resta che perseverare, lasciarsi sferzare il volto dal vento dell’ingiuria e divenire albatri appesi al collo della società.

Lasciarsi andare al vento, non trattenermi in mezzo a tizzoni di notizie feroci
Io che scrivo tra le vie di poeti puttane
mi son perso e
resto in attesa di
tornare a scrivere presto
un nuovo vero verso
Perché se non mi desto
da questo torpore
che ti inculcano nella mente
basteranno soltanto poche ore,
attimi o istanti
prima che io possa pronunciare
a me stesso
l’avversa parola: fine

 

© Valerio Ragazzini

 

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