Antonino Caponnetto, Come un libro mai scritto
Prefazione di Anna Maria Curci. Postfazione di Liliana Arena
Campanotto Editore 2020
Che «un Eden sia pensabile ed umano»: Sulla poesia di Antonino Caponnetto
La similitudine che dà il titolo alla raccolta di Antonino Caponnetto, Come un libro mai scritto, assume la misura di un settenario e prelude a un percorso breve – trentacinque testi – e, tuttavia, molto ricco per le direttrici disegnate e per le prospettive che vengono di volta in volta intuite, schiuse, quando non addirittura messe a nudo. L’introduzione a questo libro seguirà dunque un itinerario per direttrici e per prospettive.
Ecco, dunque, le direttrici di una raccolta che tiene conto della pluralità di lingue, di linguaggi e di fonti letterarie di nutrimento, ancora prima che di riferimento: l’assunzione di responsabilità, il ruolo della storia, la meditazione che diventa testimonianza.
Chi, per primo, si assume responsabilità, è il poeta, nel suo vivere nella storia e nella sua relazione, in continuo divenire, con un mistero che viene sfiorato, accarezzato, scosso, assaltato, perché riveli e si riveli. Il componimento iniziale, Versi per un cantore, disegna in tal senso, nelle quattro quartine che lo compongono, un vero e proprio programma: «Come antico profeta reso cieco/ dai capricci d’un dio, tu guardi e vedi/ con l’occhio della mente l’ampio stormo/ delle gru cenerine alzarsi in volo». Guardare e vedere, vedere dopo aver semplicemente guardato: non a tutti è dato questo talento che è, contemporaneamente, fardello da portare con sé, stigma e peso della diversità, in un viaggio fuori di sé, per ricongiungersi all’Uno che racchiuda anche l’Altro: «vago d’un Sé o d’un Dio cui tu, mortale/ ricongiungerti aspiri, farti uno/ con quell’Altro te stesso, e non pensarti / un casuale specchio d’universi».
La sete d’infinito, che il poeta asseconda nel suo perenne sollecitare, dà vita a un moto a onde che si susseguono con ampiezza crescente, a un movimento che tutto vuole comprendere e che, per esplicita dichiarazione del poeta, è innanzitutto avvolgente, come testimonia il frequente ricorso all’enjambement, e che si avvolge attorno a quel mistero che di quel moto è, insieme, scaturigine e meta.
Dall’assumersi responsabilità, da parte del poeta nella professione del suo guardare e vedere, nel moto che si propaga dalla sua sete d’infinito, deriva la schietta consapevolezza circa la strumentazione che non solo guida il suo viaggio, ne illumina le coordinate, ma ne irrobustisce, oltre a ciò, la costituzione o, viceversa, sa liberarsi dalle zavorre, in modo da favorire l’ascesa. La parola, il suo congiungersi e affiancarsi ad altre parole in un discorso che non si presta a equivoci e che pure si sa articolare per molteplici snodi e costruzioni complesse, è parola che dialoga con il silenzio, con il fecondo silenzio, proiettato nel futuro: «Lenta si spoglierà la lingua d’ogni/ parola obliqua ed abusata fino/ a quel confine in cui solo il silenzio/ esisterà e lo sguardo finalmente/ di là dall’orizzonte potrà andare» (Lingua).
Vive il poeta, che pure anela al mistero, nella storia, e al suo insegnamento, dai più scansato, sciattamente o accuratamente evitato, non vuole sottrarsi. Ma il poeta guarda e vede, e sa riconoscere, nei grumi sanguinari e nello scorrere, non di rado a fiotti violenti, della storia, gli “emblemi” della minaccia sempiterna, sia essa in maschera o in palese manifestazione: «Era un Signor Nessuno l’Imbianchino/ del quale Brecht cantò le nefandezze/ Ma la storia ne fece un dittatore,/ un nero emblema della distruzione,/ come forse farà delle feroci/ e sanguinarie belve che dall’ombra/ emergono per darci un altro mondo» (Emblemi).
La consapevole cura dei propri strumenti e le considerazioni, attuali e inattuali, circa il legame tra poesia e storia, nutrono una meditazione che si fa testimonianza, testimonianza dei limiti, così come dei felici ancorché episodici superamenti di quei limiti. Ne nascono ipotesi non banali di nuove combinazioni, di nuove coniugazioni: «Io non credo, lo sai, che la parola/ senza un exemplum vitae, sia capace/ di far diverso in te l’intero mondo// Nel silenzio confido e nell’istante/ del più puro risveglio, quando appare/ in piena luce il volto della vita» (Exemplum vitae).
Si apre allora una prospettiva concreta, azione di contrasto alla reificazione dell’umanità che si palesa nei fatti e nei proclami (Uomini e cose). È una prospettiva offerta dalla cura quotidiana, come testimoniato dal componimento Il giardiniere.
È una prospettiva che non tace, soppiantandolo con facili ottimismi, l’anelito del poeta, la sua “sindrome di Ulisse”, la sua irrequieta brama di ripartenza e di ritorno, e di ritorno al silenzio, esemplarmente dispiegata nella poesia bilingue, in catalano e italiano, Dol migratori: «Vaig vagar durant anys pels mars com un boig/ i voldria submergir-me en un immens silenci» (Ho vagato per anni sul mare come un pazzo/ e immergermi vorrei in un silenzio che non ha misura).
La consapevolezza dello scoglio, del naufragio, non impedisce tuttavia il ribadire la parola Sempre, come nella poesia che porta questo titolo, per lo slancio di libertà oltre ogni morte, uno slancio di libertà garantito proprio dal lavoro incessante del poeta.
La prospettiva, torno a ribadirlo, si apre continuamente al futuro, ma conferma, strappandoli a dimenticanze, semplificazioni e risciacquature, i debiti di riconoscenza con il passato, con la poesia di Friedrich Hölderlin, per esempio, rischiarata dai versi del componimento che ha come titolo il cognome del poeta tedesco e, in un movimento ancora più ampio, con tutti coloro che «non sono mai trascorsi» nel cuore del poeta. Solo se il seme nuovo conterrà l’antico si potrà raggiungere la condizione perché «un Eden sia pensabile ed umano» (Eden).
© Anna Maria Curci
LINGUA
Lenta si spoglierà la lingua d’ogni
parola obliqua ed abusata fino
a quel confine in cui solo il silenzio
esisterà e lo sguardo finalmente
di là dall’orizzonte potrà andare
EMBLEMI
Era un Signor Nessuno l’Imbianchino
del quale Brecht cantò le nefandezze
Ma la Storia ne fece un dittatore,
un nero emblema della distruzione,
come forse farà delle feroci
e sanguinarie belve che dall’ombra
emergono per darci un altro mondo
EXEMPLUM VITAE
Io non credo, lo sai, che la parola,
senza un exemplum vitae, sia capace
di far diverso in te l’intero mondo
Nel silenzio confido e nell’istante
del più puro risveglio, quando appare
in piena luce il volto della vita
UOMINI E COSE
Dogma non dichiarato del Potere
è assimilare gli uomini alle cose
AI NOSTRI GIORNI
Tanto arzigogolare del pensiero
mi pare oggi un vizio della psiche
un indugiare disperato e perso
nel senza-tempo buio ed abissale
di ciò che non ha limite né nome
IL GIARDINIERE
Tu coi cerotti stretti tutt’intorno
alle dita lavori tutto il giorno
in quest’industria instabile
che la pelle colpisce incide e taglia
Ma qui, nei favolosi
giardini rivieraschi, dove aleggia
fresca l’ombra al mattino a colazione,
i dolori spariscono col levarsi del sole
Qui perfino un amore
già morto e sotterrato
torna alla vita e non è mai passato
DOL MIGRATORI
Vaig vagar durant anys pels mars com un boig
i voldria submergir-me en un immens silenci
Di là dai versi, anch’io come Ulisse vorrei
che intorno a me il silenzio immenso si facesse
Ma quelli che io amo tengono già da tempo
pronte per me che torno miriadi di domande
E io questo mio male d’uomo senza radici
pur di non atterrirli seppellirò nel cuore
Ara veig bé que Ítaca ja no és la mateixa
i jo també no sóc aquell home que era
SEMPRE
C’è sempre – ed è la prima –
la libertà, diceva Yannis. Qui
io taccio, perché a farmi
libero, no, non sono le parole
Nemmeno la parola libertà,
né le molte ferite, ma la vita,
se ancora saprò spendermi,
se di nuovo amerò dopo ogni morte
Una replica a “Antonino Caponnetto, Come un libro mai scritto”
Grazie ad Anna Maria Curci e a Poetarum Silva, per questo post che coglie e accoglie pienamente il senso, il significato (così come il destino) di un libro che in qualche modo “mi si è fatto da sé” .
Antonino Caponnetto
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