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Majakovskij, morte di un immortale

Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi
Majakovskij, morte di un immortale
a cura di Giulia Bocchio

Se muore un poeta, un vero Poeta, muore comunque qualcuno di immortale. Il guaio è che, questo, è un fatto che possono constatare solo i posteri, solo coloro che verranno al mondo dopo.
Il morto in questione deve sopravvivere al presente, ai suoi contemporanei, ai suoi freschi detrattori. E i versi stridono, o meglio qualcuno potrebbe farli stridere o del tutto tacere.
Il 14 aprile 1930, a Mosca, successe qualcosa di simile: morì Vladímir Vladímirovič Majakóvskij, un colpo al petto e il cuore della poesia rivoluzionaria cessò di battere per sempre. Il 7 luglio avrebbe compiuto trentasette anni.
Lui, il poeta della Rivoluzione d’ottobre, il cantore futurista del verso libero come un proiettile, perché l’arte può non avere un senso ma una finalità ce l’avrà sempre. Quel suo verso-proiettile arrivò sino alla carta stampata, sui giornali, a teatro, nelle fabbriche, Majakóvskij aveva colpito nel segno del linguaggio politico e sociale, in Russia era qualcosa di davvero dirompente, ma qualcosa gli rimbalzò contro. Suicidio, constatarono gli inquirenti e la polizia russa.
D’altronde aveva lasciato una lettera d’addio che non lasciava posto ai dubbi dei romanzieri: «A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta».
Davvero il genio russo della poesia rivoluzionaria, sorta in un sistema contro il sistema, s’era potuto togliere la vita così? Davvero non aveva scelta.
Lui, il genio precoce, come un veggente Rimbaud, quello affascinante, bellissimo, che cantava come un oracolo i suoi stessi versi, lui, amato dalle donne, dai giovani, dagli operai, proprio lui che in pochi anni aveva fondato il LEF (Fronte di Sinistra delle Arti) dando un senso estetico e ideale alla cultura post-rivoluzione, per poi cambiare ancora avviso e modo di poetare, davvero l’aveva fatto?
Eccome! Grida qualcuno post-mortem. Ma i motivi della volontaria dipartita di Majakóvskij hanno ben poco a che fare con l’arte.
Il defunto, i pettegolezzi, li detestava ma saranno proprio quelli a piovere addosso al cadavere ancora caldo. Certo perché il poeta era divorato dai debiti di gioco, aveva il vizio.
No, peggio, aveva la sifilide afferma la Pravda, celebre testata che pubblicò sin dagli esordi i suoi versi, e non gli restava molto da vivere.
No, non era sifilide, dice la casalinga, nonché inquilina dell’appartamento 10, all’interno della stessa residenza in cui il poeta fu trovato morto, semplicemente non era in salute, s’era preso un’influenza che non passava mai, i polmoni erano andati. Il poeta stava deteriorandosi. Merce avariata la sua.
Per gli immancabili detrattori, per gli scrittori non certo in vista come lui, egli era spacciato, non creava più, avevo perso stile e potenza comunicativa.
Non era proprio per quello, s’era ucciso perché non faceva che collezionare fiaschi, vedi Banja, pièce teatrale stroncata dalla critica. No, non è più il Majakóvskij degli inizi, s’è imborghesito. Non lo ascoltano più nemmeno gli studenti, ridono di lui. Spesso lo insultano.
È un uomo finito Majakóvskij, e non è poi questo gran talento in fin dei conti. S’è sponsorizzato bene, il suo aspetto lo ha aiutato. Per un periodo è piaciuto alle persone giuste e ai giornali giusti. Le sue poesie sono incomprensibili, non servono alla causa.
Dietro a questa morte celebratissima e chiacchieratissima ci sono poi altre versioni, altre gogne: si è sparato per amore, aveva problemi con le donne, ne aveva troppe di quelle situazioni che da romantiche diventano cappi al collo.
E poi uno che vive con il marito della propria amante è destinato a soccombere, è uno che non sa gestire i sentimenti. È un insicuro, una delle sue amanti ha detto che è diventato pure impotente. Ma la sua musa di sempre smentisce.
La signora in questione è l’attrice e scrittrice Lilja Brik, la sua prediletta musa appunto, ma anche la moglie di Osip Brik, scrittore ovviamente. Ebbe con Majakóvskij un rapporto artistico ed erotico indissolubile e fuori dai canoni classici della famiglia, il marito era a conoscenza di tutto ed anzi, la cosa funzionava grazie a quell’armonia, a quella condivisione così aperta e svincolata da qualsivoglia retaggio. Vivevano insieme e insieme scrivevano, recitavano, protestavano, facevano politica, associazionismo, fondavano slogan: funzionavano.
Eppure a Parigi, qualche tempo prima, Majakóvskij aveva incontrato la bella e rispettabile Tat’jana Jakovleva, da lui chiamata dolcemente Tatà. Voleva sposarla, portarla con sé a Mosca e riscrivere il suo destino, ma ovviamente Tatà non avrebbe mai rinunciato alla capitale francese, ai salotti, per la turbolenta Russia, per un artista geniale ma troppo povero, troppo instabile, un uomo che era troppo in tutto. No, lo rifiutò e sposò un altro. Ecco perché Majakóvskij si suicidò, per capriccio, per rifiuto.
Ma in quel caso non fece in tempo, gelosa di Parigi, di Tatà e del suo poeta maledetto, Lilja Brik gli presentò subito un’attrice, così, per distrarlo, per ricordargli che in quel gioco di vite e di rivoluzione valeva tutto, ma non ci si poteva allontanare troppo e non valeva la pena perder tempo con una piccolo borghese che non avrebbe mai lasciato i suoi agi. Loro avevano una visione, a che serviva una posizione.
Gli venne presentata la giovanissima e avvenente Veronika Polonskaja, sposata. Era il 1929. Amore casto, dice lei, amore senza vergogna e senza orari, i vicini.
Veronika Polonskaja era anche la donna che uscì dalla stanza del poeta il giorno del suo trapasso.
L’ultima a vederlo vivo, la prima a vederlo morto. Gli inquirenti le fecero una lunga serie di domande, ma non ne ricavarono granché, si aggiunsero anzi altri pettegolezzi: s’era sparato perché la Polonskaja non avrebbe mai lasciato il marito per lui. Esattamente come Tatà.
Toccò fare un’autopsia del cervello del poeta, lo vivisezionarono, onore che fu concesso a Lenin prima di lui, ne uscì un risultato che non spiegava né le isterie né la creatività artistica, ma solchi e circonvoluzioni furono catalogate come “sorprendenti”.
Di sorprendente, per Lilja Brik, non c’era molto a proposito della morte dell’uomo della sua vita: erano anni che bramava il suicidio. Aveva una percezione falsata del tempo, il giovane Majakóvskij.
La mente del genio che dà vita a opere immortali e la precoce finitudine: ma non sei mica una ballerina! Lo canzonava Lilja.
Nessuno immaginava Majakóvskij vecchio, non era fatto per quel genere di fase della vita, era come la sua poesia. Ci sono opere che non invecchiano.
Eppure nessuno si capacitava del gesto.
Forse è stato un omicidio, sussurrò qualcuno durante l’affollatissimo funerale. Era invischiato nella politica, poi aveva fatto confusione, non concludendo nulla, perdendo di credibilità. Meglio farlo tacere. Meglio smettere di scrivere.
Oppure la colpa sta nelle viscere del sistema, un sistema politico subdolo, come appunta nel suo diario Sergej Ejzenstejn, «Bisognava farlo fuori. E lo hanno fatto fuori… Uccidere una persona con le sue stesse mani è la più terribile forma di omicidio, sacrilega e crudele», un frammento rimasto chiuso in un archivio segreto per ingiustificati decenni.
Erano anni difficili, Majakóvskij stesso era un poeta difficile. Era un artista che assomigliava alla propria arte e all’ego di una società che stava cambiando, che stava lacerandosi nelle sue stesse contraddizioni: ma si può scrivere anche col sangue.
Quello di Majakóvskij rimase sul pavimento al numero 15 di vicolo Gendrikov, mentre l’inchiostro e l’urlo delle sue poesie riecheggiano ancora in Russia e narrano di una rivoluzione che rivoluzionò per davvero le vite di quegli uomini.
Suicidio, omicidio… il mistero, il quesito resta aperto, tanti i pettegolezzi. Il defunto li avrebbe odiati tutti, mentre Serena Vitale in maniera originale, puntuale e passionale raccoglie i frammenti di questa vicenda nera, fatta di genio e ambiguità: il suo libro Il defunto odiava i pettegolezzi (Adelphi) è un omaggio al poeta per eccellenza del Novecento russo e una grande lezione d’inchiesta per coloro che verranno; s’è detto, se muore un poeta, un vero Poeta, muore comunque qualcuno di immortale.


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