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Alessandro Canzian, Il condominio S.I.M. (rec. di Emilia Barbato)

Alessandro Canzian, Il condominio S.I.M.
Stampa 2009
Nota di Emilia Barbato

Su una strada qualsiasi ogni giorno è possibile osservare un’infinità di macchine ciascuna veicolo di una storia diversa, portatrice di una goccia di questa nostra società liquida. Ebbene, al pari delle singole unità d’acqua ogni molecola di umanità sembra transitare nel Condominio S.I.M., ultima raccolta poetica di Alessandro Canzian, edita da Stampa 2009, con prefazione di Maurizio Cucchi.
L’autore, con un linguaggio chiaro e diretto, descrive la vita di un genere umano polverizzato, fortemente disorientato da individualismo e solitudine.
Sviluppo tecnologico e globalizzazione hanno contribuito a mercificare cose, valori e sentimenti e nell’universo che si nasconde dietro ogni singolo nome dei residenti è chiara un’intenzione di denuncia dell’impoverimento spirituale, una nota di amarezza e delusione, di tradimento.
Alla fine del secondo decennio del duemila, il mondo restituito da queste poesie è spietato, tutto sembra sgretolarsi, farsi polvere. Tra le pareti le intercapedini permettono di spiare la vita dei singoli, la scarsa qualità dei materiali edili, di origliare momenti intimi, voyeurismo che continua sui social che lo sviluppo ci ha offerto per sostituire sempre di più il corpo con il virtuale, bisogni pleonastici indotti come forma e mezzo di distrazione da quel corpo unico in grado di fare massa e resistenza, opposizione. E se lo sguardo della voce narrante si allontana dagli interni si sofferma sui non luoghi. Lavanderie, supermercati. Dunque, tutto non appartenente, tutto transitorio, impersonale, ogni ambiente o situazione descritta esaspera questa nostra già disperata condizione umana.
La solitudine affiora nella voce di ciascuno dei protagonisti con chiarezza, Olga ad esempio dichiara che «Non si può essere più soli/ di quando non si è soli»; Carlo «lascia in giro fazzoletti perché raccontino una storia, vicino al forno, ai libri accanto al letto». La madre di Silvio gli chiarisce che è «inutile attendere l’attesa» o ancora «Una/ chiusura non è mai chiusura/ senza una porta a cui bussare» ed è a mio avviso, in questi ultimi versi citati, che è possibile ritrovare un manifesto di lotta al niente, al rifiuto e al disprezzo che può trovare un essere umano in una società come la nostra. Perfino «alla tv non c’era nulla da guardare».
Questo io che è tutti noi, impiegato, operaio, extracomunitario, anziano, manager, voce narrante, è stanco della sofferenza, frustrato dalle cronache precarie dei giorni e non riesce più a sopportare uno stile di vita caratterizzato da ritmi estenuanti e deprivativi. Possibile che dopo lunghe giornate spese in ufficio, in fabbrica, facendo pulizie, debba trascorrere il residuo del tempo in un supermercato a cercare offerte per poi rincasare con una pizza surgelata confezionata e qualche birra in una casa vuota?
Aldo, capelli brizzolati «da dottore/ o ingegnere» ci dice che «Siamo tutti prodotti da/ supermercato» e continua nella chiusa sostenendo che «alla Coop/ fanno le offerte migliori». Lo stesso Aldo, lasciato, «guarda/ solo la ragazza che pulisce», vive nei locali dove «trovano/ rifugio immigrati e separati» e per lui «tutto è buono./ Anche la cinquantenne trovata/ a ballare mezza nuda e che/ non chiede niente. Non fa/ differenza l’età, direbbe Aldo. La solitudine non invecchia».
Una fotografia desolante di amori frugali questo fast food di sentimenti dove ci riforniamo. Tutto è destinato a non restare, a prescindere dal concetto di classe sociale, che poi non esiste più.  La donna delle pulizie rumena, sfruttata, consumata, non ha sogni ma semplicemente si trascina nelle ore senza alcuna coscienza e voglia di lotta al pari dell’impiegato, del manager, dell’operaio, tutti ugualmente digeriti.
Dunque, il capitalismo ci ha consumati rendendoci un pasto ugualmente sostituibile e ingeribile facilmente? Ormai nessuna differenza tra ricchi e poveri, tutti più poveri di valori e coscienza.
Ma allora questo ultimo lavoro di Alessandro Canzian denuncia solo lo stato di fatto, e credo sia già tanto, o suggerisce un appiglio?
Una luce, una via di salvezza in questo libro esiste e si chiama Giulia, splendida gabbia poetica. Con l’autore non ha mai veramente parlato, è un’invenzione, una poesia a cui non sta dietro. Questo melograno è energia vitale che riscatta. Esigenza che eleva l’individuo dalla sua condizione umana alla divinità.
Sono il gioco, la passione, la creazione, i soli elementi capaci di ricondurci al senso, necessari per liberarci di un’utilità tutta asservente. Poesia e arte rappresentano insieme eredità e mistero d’origine che dobbiamo continuare a ricercare. È come se nelle mani di Giulia, che non ha mai veramente parlato, quel libro rappresentasse non il giorno ma tutto il tempo da attraversare e già attraversato, nel suo piede bianco la storia intera dell’umanità.

© Emilia Barbato

 

Non ho mai veramente parlato
con Giulia, è tutta un’invenzione.
Una finzione che si pensa
il luogo delle sue ginocchia,
il passo distratto per le scale,
a volte non le sto dietro.

 

È bizzarra questa Giulia che
guardo ma non conosco.
Le calze scure, i tacchi
appena un poco alti e
i capelli arricciati come polvere.
Giulia oggi è un melograno.

 

Giulia non sa d’essere
guardata quando si ferma
e toglie una scarpa. Ha
un piede bianco come la storia
e delle unghie curate e piane
che dicono un paesaggio.
Un tempo da attraversare.

 

Giulia oggi aveva un libro
e l’aria di chi non ha
dormito. Come quando
la sveglia non ha suonato,
e il giorno non è iniziato,
e le lenzuola non si sono mai
sporcate, non c’è nulla da lavare.

 

Giulia esce sempre sconvolta
anche quand’è compita.
Elegante nel passo, nel laccetto
che le tiene fermi i capelli.
È altrettanto terribile
capirla totalmente.

 

Giulia oggi mi ha stupito.
Nella corsa per le scale si
stringeva contro il muro
con lo sguardo che aspettava.
La stessa gonna indossata ieri.
Finché guardandomi ha detto:
«dai, mi scappa la pipì».

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