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«L’eterna mitologia del perduto»: su “Modi indefiniti” di Federica Gallotta (nota di Alessio Paiano)

Non c’è da stupirsi che la discussione attorno alla poesia degli ultimi decenni abbia trovato terreno fertile nel rapporto tra poeta e paesaggio: quest’ultimo, quando non ridotto all’abusato motivo testuale del locus amoenus, tanto che alle spalle del verso esso pare a volte stagliarsi in forma di carta da parati stinta e marcescente, compone difatti le coordinate mentali di una geografia in cui collocarsi e ritrovare il proprio spazio ideale, al riparo da interconnessioni sempre più alienanti, non nel senso di una comunione emotiva con la natura e il suo sfondo plastico ma nella nostalgia di un luogo che si configura – nel tempo della scrittura – in termini di inesistenza.
Per questo Federica Gallotta vive il suo personale esilio nei confini tracciati dal proprio spazio domestico, componendo una peculiare epica attorno alla casa e ai suoi oggetti, disposti dall’autrice per architettare una scenografia tale da decantare addirittura il potere ancestrale di una «moka» semovente, chissà «verso quale destino» (p. 30), o di altre suppellettili che si fanno reliquiario simbolico o che possono assumere il ruolo di totem domestici quando l’autrice, anch’essa presenza aleggiante nella casa, veste i panni di un’antica sacerdotessa che mescola e «dispone i cristalli sul tavolo» (p. 44), giocando a rileggere prima, a decifrare poi, la propria storia incasellata nelle mura. In questo viaggio paradossale in cui la poetessa rovista nella propria casa con l’occhio di un viandante interno e allo stesso tempo straniero – nell’incipit del libro, «un paguro senza casa» -, la ricerca di una dimora stabile, salda e sicura è il motivo ricorrente di Modi indefiniti (Interno Poesia, 2020), poiché il presagio più volte denunciato è quello di un collasso imminente, e che l’implosione riguardi la casa o il soggetto che la abita poco cambia. L’esilio non è percepito in ragione di una distanza o di uno sradicamento dal proprio luogo di origine, anzi è ciò che si trova appena fuori casa a rivestire il ruolo di grande estromesso nel testo, poiché esso si fa paesaggio tutto interiore di silenzio e di elogio alla solitudine, si riformula in un equilibrio precario sorretto in virtù di una disposizione ossessiva degli oggetti, dalla cui minima oscillazione possono scaturire disastri irreparabili; l’armonia ristabilita a fatica è sempre labile e ogni ritorno indesiderato va domato per non metterla a rischio: «È una stipsi del cervello: trattenere/ tutto ciò che va in tilt possibilmente/ non lasciarlo andare, lasciarlo/ ristagnare» (p. 19). Se un’evasione è possibile essa va individuata con cura tra le pagine della propria «antologia del possibile» (p. 18), dove si trovano raccolti tutti i voli mentali dell’Io che, oltre a frangersi continuamente in tutti gli angoli della casa, si sposta all’interno di un asse che include sia le altezze astronomiche di pianeti inafferrabili (la cui disposizione non può dipendere – horribile dictu! – dalla propria smania ordinatrice), sia gli scavi profondi nella materia in qualità di alchimista o riducendosi in sostanza residuale, «corpo molle e delicato, malleabile scorza» (p. 22).
In ogni caso è sempre la casa a costituire il forziere strabordante di un accumulo mnemonico che si fa rifugio e minaccia costante, e dunque non tutto va conservato se non rientra nell’ordine stabilito: bisogna «essere veloci tempestivi/ non aspettare la fine dell’estate, tagliare/ tagliare, quei fiorellini: belli da guardare però/ s’ha da fare: decidere, recidere» (p. 27). A volte s’insinua il desiderio di una fuga totale, perché salvaguardare l’equilibrio delle cose è un compito talmente gravoso da non avere dubbi: «la casa non regge – tutti questi/ umori strani» (p. 28), e chissà se questo costante presentimento della fine non sia un desiderio indicibile, una liberazione possibile, dato che il rischio concreto è di auto-seppellirsi tra le rovine del proprio tempo andato, «andare a male/ putrescere, imputridire» (p. 32). Non resta allora che chiudersi volontariamente fuori casa per andare alla ricerca di un tempo nuovo, vestendo i panni di una delle proprie Heroides se necessario, «nei posti dell’assenza/ perché lì (mai riempito) il vuoto non fa male» (p. 66); lì è possibile ricomporre una geografia in cui la casa si è trasformata da mausoleo a porto d’attracco, per fare spazio a «un turbamento/ nuovo di zecca, da tenere per l’inverno».

@AlessioPaiano

 

1.

Come sarebbe la mia vita se non fosse questa
vita ma altre mie vite non vissute, o vissute
altrove. Come felice sarei, o infelice, se
non vivessi la mia vita ma qualche altra
vita che esiste e c’è, se non esiste
questa, la mia. Ma chi ha deciso
nell’antologia del possibile
che fosse proprio questa
e non un’altra, dove io
magari non ci sono
nemmeno.

 

2.

Disfatta nella forma qua – aspetto
sono liquido: miscuglio decoroso, mi adatto
a ogni tua richiesta, sono ancella: alla pigrizia
di fine giornata – lavoro affanno o scocciatura tua.
Ti avvolgo: mi faccio coperta placenta e dissolvo
sto zitta. Approfitta: sono i giorni della muta
il corpo molle e delicato, malleabile scorza.

Domani tornerà la forza, le chele che attanagliano.
Sconfiggerò il leone.

 

3.

A volte ho come l’idea di decompormi
non scompormi ma andare a male
putrescere, imputridire.

Non mi muovo, non un passo
odoro, ascolto
quello sbriciolarsi come d’ossa
che viene dall’interno

Lo sminuzzare, ridurre in poltiglia
di quelle già polverose sostanze
di cui sono o ero fatta prima
di sbucciarmi le ginocchia cadendo
su spigoli e pungiglioni
così simili
a delle braccia distese a indicare me.

 

4.

Come Campana facciamo, e l’Aleramo
quando un po’ tesi si scambiarono i pareri
e già fu tardi per tornare indietro.

Passami il termine, e poi non t’arrabbiare
se a sera torno a casa mia col seno
pieno di parole e un turbamento
nuovo di zecca, da tenere per l’inverno.

 

FEDERICA GALLOTTA, Modi indefiniti, Interno Poesia, 2020

 

PROFILO BIOGRAFICO DAL VOLUME:

Federica Gallotta nasce il 13 luglio 1990 a Tarquinia, cittadina sul mare in provincia di Viterbo e da tre anni vive nel capoluogo, dove ha trascorso gli anni universitari. Nel 2017 consegue la laurea magistrale in Filologia Moderna all’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo e attualmente insegna italiano in una scuola di Tarquinia. A novembre del 2017 pubblica presso Giuliano Ladolfi Editore la raccolta di poesie Altri nuovi giorni d’amore.

2 risposte a “«L’eterna mitologia del perduto»: su “Modi indefiniti” di Federica Gallotta (nota di Alessio Paiano)”


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