Cecilia M. Giampaoli, Azzorre
Neo Edizioni 2020
Di questo libro, uscito molto recentemente per la Neo Edizioni, si è scritto già parecchio e bene. Uno dei termini che più ricorre nelle diverse recensioni è “verità”, fatto quanto mai interessante se pensiamo al presupposto del libro in sé. A questo proposito però prima di addentrarmi tra le pagine di Cecilia Giampaoli ho bisogno di citare una parte di quanto scritto dalla giornalista Annalisa Camilli a proposito della memoria legata a quanto è successo a Genova nel 2001 e anche se a questo punto qualcuno potrebbe sobbalzare sulla sedia, devo evidenziarne un passaggio molto interessante in cui la giornalista scrive:
Sono meccanismi che distolgono l’attenzione dal contesto, che schiacciano le posizioni in un rapporto binario tra due tifoserie. C’è questo fatto che spesso chi parla di quella morte non era a Genova, non ha seguito i processi e non ha nemmeno mai letto le carte dei processi. Anni dopo ci saremmo abituati a questo modo di parlare della realtà, allo scollamento tra i fatti e quello che rappresentano.
Il motivo per cui la prendo così larga è perché sono sicuro che sono pochissimi coloro che ricordano l’incidente aereo avvenuto l’8 febbraio 1989 sul Pico Alto, un monte di una piccola isola delle Azzorre. Presumo che sia estremamente probabile che chi se lo ricorda è perché a quell’incidente sia in qualche modo legato. Per molti altri è solo un evento fortuito, un pezzo di storia che è andato via via dissolvendosi lasciandone le scorie solo ai familiari delle vittime e a chi in un modo o nell’altro ne rimase coinvolto. Per alcuni di noi che hanno perso qualcuno su quell’aereo (ebbene sì) la memoria è anche legata al fuorviante dibattito che era nato sui quotidiani di quei giorni a proposito della sicurezza o meno dei famigerati voli charter, cosa che oggi in epoca di voli low cost farebbe sorridere se non fosse che tra le righe di quel dibattere l’unica verità che continuava a sfuggire era che 144 persone avevano perso la vita e dietro ad ognuna di quelle morti si sfrangiavano altre verità in un collasso globale che aveva bisogno di una narrazione che non fosse tronca, parziale, esclusivamente meccanica. Cecilia Giampaoli è la figlia di una delle vittime. Anche se molto piccola al tempo dei fatti e quindi con una memoria parziale del prima e del durante decide di andare sull’isola di Santa Maria che sorprendentemente scoprirà ancora pervasa da quanto successe quel giorno quando gli abitanti di un’isoletta dell’oceano, ai tempi utilizzata come scalo di rifornimento per alcuni voli transoceanici videro quell’aereo volare basso, troppo basso verso gli alberi sulle pendici del Pico Alto.
Scorrendo le pagine si intuisce benissimo che la “verità” su quanto successe quel giorno, non viene mai cercata da Cecilia nella definizione assoluta di colpe e responsabilità, ma in ogni piccolo particolare, ogni incontro, ogni narrazione come in ogni frammento che ancora rimane sepolto nella terra, tra le pietre, tra gli alberi o nelle case degli abitanti dell’isola e che ha una sua verità da raccontare. C’è un passaggio secondo me peculiare del libro che non fa che puntare il dito sulla necessità di un’altra “verità”: quando a Cecilia incredula e ferita viene narrato il fatto che il controllore di volo avesse sentito in cuffia dei rumori come se tutti i viaggiatori nell’approssimarsi dell’atterraggio stessero facendo festa. Un’altra deviazione ma anche un goffo tentativo di esorcizzare quello che manca nelle narrazioni di disastri come questi: il punto di vista del passeggero. Io non ricordo quando esattamente mi arrivò la notizia che Giulio M., compagno di scuola che non vedevo dai giorni della maturità era su un aereo diretto ai Caraibi che si era schiantato su una montagna delle Azzorre, ricordo però il successivo sgomento e il bisogno di capire come poteva essere raccontata, spiegata, definita una morte del genere a poco più di 20 anni d’età, durante un viaggio probabilmente sognato e faticato.
Un incidente aereo presenta sempre una narrazione tronca, parziale: una sorte di pudore circonda gli ultimi attimi dei protagonisti. Sapremo tutto quello che accade fuori quei corpi: le dinamiche tecniche, sapremo tutto dalla scatola nera, ricostruiremo carcasse metalliche per capire cause e concause tecniche, ma quello che avviene al corpo, dentro al corpo resta coperto da un pudore che è sicuramente necessario ma che non pacifica mai. L’operazione che fa Cecilia in questo senso è estremamente profonda e efficace. La voce di chi era su quell’aereo esce attraverso la voce di chi ha assistito allo schianto, a chi ha partecipato ai soccorsi, di chi ha partecipato a questo lutto totale improvviso profondo che ha segnato una comunità e che ancora riemerge come i frammenti che ancora si trovano lungo i sentieri del Pico. È questa la verità che manca, che non è quella epifanica di un colpevole da definire, di cause e concause da delimitare ma quella di un evento che intimamente proviamo a definire come “mortale” nel momento in cui si realizza come una scomparsa a cui adattarsi. Ha ben ragione quindi la sorella di Cecilia a raccontare la sua innocente non rassegnazione nell’immaginarsi un improvviso ritorno ed è il viaggio di Cecilia che adulta mette mano a tutti quei frammenti a quelle voci e prova a ricostruire la dignità familiare, privata, emotiva di una memoria che non è mai solo “cronaca”.
© Iacopo Ninni