Guglielmo Aprile, Farsi amica la notte
Giuliano Ladolfi editore 2020
In Farsi amica la notte di Guglielmo Aprile ritrovo la poesia del disincanto fecondo – in progressivo allontamento dal rischio di autocompiacimento nichilista – che avevo conosciuto e percorso nelle raccolte precedenti, in particolare in Il talento dell’equilibrista. È un disincanto che scaturisce dall’osservazione ravvicinata, potremmo dire ‘senza involucri protettivi’, del fenomeno. Dall’osservazione impietosa, per sé prima ancora che per gli altri, sgorga una scrittura che genera senso e che porta le ferite di chi è stato attaccato dai tempi, messo all’angolo, da chi dai tempi subisce ripetute imboscate.
Che il confronto con i tempi sia serrato – e serrato in una misura che sento affine per individuazione dei bersagli – è rivelato dal titolo della prima sezione, che denuncia proprio lo scomparso per eccellenza di questi tempi, Il principio di realtà, strangolato e soppresso da un principio di piacere che è principio di piacere indotto, manipolato. La dissonanza provocata dal prevalere dell’insulso soffocatore sul grande assente si manifesta anche nel dire poetico, in particolare nel ricorrere di versi che terminano con parole sdrucciole o bisdrucciole.
Si dilata lo strazio e ci si scopre, a ogni risveglio, a ogni crudele epifania, «abbandonati», termine ricorrente, questo, che nomina una condizione esistenziale di orfani, dal «precoce/ risveglio dall’anestesia» in un universo di sazi e narcotizzati figli del tempo.
Così come i padri degli «abbandonati» sono stati soppressi al pari del principio di realtà, anche i baluardi e le dighe nella storia sono rovine; perfino i loro resti sono stati sepolti dalle bombe di una delle tante battaglie di una guerra permanente: è quello che è successo, in un bombardamento del 2015, alla diga di Ma’rib. Ecco che, già nel titolo della seconda sezione, Disastro di Ma’rib, si enuncia uno dei luoghi di una vera propria topografia dell’orrore, che si espande subdolo, rumore sordo e impercettibile ai più, da incroci urbani a banchine di porti in disarmo, dal Mato Grosso a periferie abusate, a deserti.
Nella terza sezione, che porta il titolo della celebre opera di Frazer, Il ramo d’oro, la topografia dell’orrore si unisce all’antropologia dell’oggi. Ricorrono gli aggettivi «deportati», «stipati». Si è rotto «l’ingranaggio dei cieli», gli appigli alla religione sono consunti e, come recita la chiusa di Dostoevskij in Siberia, «Il bivio è estremo:/ o immergersi nudi nell’abbraccio della steppa,/ o ritirarsi sul fondo di un pozzo».
Siamo arrivati al Finis mundi, al Non plus ultra? Nella quarta sezione, Gibilterra, sembra che sia così, già dal titolo che evoca le colonne d’Ercole, l’Ulisse omerico, l’Ulisse dantesco nel XXVI canto dell’Inferno e il flusso di coscienza di Molly Bloom nell’Ulisse joyciano. Sicuramente Gibilterra sta per un avamposto, deserto dei Tartari e lamiera arrugginita allo stesso tempo. Chi si avventura oltre, accoglie il rischio della punizione fatale, della paralisi, della narcosi eterna.
La quinta e ultima sezione porta nel titolo una frase pronunciata da Macbeth nell’omonima tragedia di Shakespeare: “Breve candela, spegniti!” e prospetta possibili forme di esistenza, ancor prima che di resistenza, nell’accettazione di una beffarda, o forse solo indifferente, Roulette: «Vivere è anche possibile, a patto/ però di una dose di sventatezza:/ è il lancio dei coltelli,/ è il colpo di carambola,/ è il biglietto in omaggio sulla giostra».
Esilio
È stato come, al risveglio, scoprirsi
abbandonati
in un luogo di cui non si hanno ricordi,
nel mezzo di una pianura
sventrata
dal morso del vento: nudi tremanti
su un letto di ardesia, all’oscuro
di un capo d’imputazione, e di come
siano riusciti i rapitori anonimi
a condurci fin lì a nostra insaputa;
la nebbia è così spessa
che ha poco senso chiedersi
verso che nord procedere, o a quanti
giorni sia l’oasi più vicina.
L’orrore
La città è un grande e mirabile esempio
dei benefici usi dell’ovatta –
ma a volte, dal corteo dei dromedari
che tracciano nella piazza
prevedibili ovali, ce n’è uno
che senza spiegazione
se ne stacca;
non annunciata in base alle effemeridi
della tabella oraria degli autobus,
una cometa in pieno giorno
tra le maglie dei cornicioni
affaccia;
nelle foto delle vacanze
il lampo
che spalanca gli occhi dell’operato,
nel caso di un precoce
risveglio dall’anestesia.
Alibi e amuleti
Il buio sta rintanato negli angoli
come un serpente insonne,
affamata voragine di giorni.
Ci fa scudo
la debolezza degli strumenti ottici
a nostra disposizione, un ronzio
di fondo si sovrappone, durante
le comunicazioni con la base,
e fa il segnale radio incomprensibile.
Scarni e aleatori, i dati;
ma è questo, l’amuleto
che rende perdonabile lo sbaglio
e sventa il rischio
di perdere il senno, al presentimento
dell’oscurità in agguato in fondo
ai tunnel e alle spalle dell’azzurro.
Dostoevskij in Siberia
La neve che sigilla l’orizzonte
compie tutti i presagi,
avvera le paure.
Ma il perno che reggeva l’ingranaggio dei cieli
si è sganciato:
ora i resti di una detonazione
s’impongono sullo spazio comune,
occupano i banchi delle vettovaglie,
i depositi dei manufatti.
Il bivio è estremo:
o immergersi nudi nell’abbraccio della steppa,
o ritirarsi sul fondo di un pozzo.
Finis mundi
Siamo arrivati dove
si arrendono le mappe.
L’intera area emersa, ogni suo angolo,
è stata fino a qui,
grazie a una complessa rete di sonde,
dettagliatamente cartografata.
La spiaggia fissa un punto indefinito
davanti a sé, da milioni di anni:
il suo sguardo è rivolto in linea retta
in una sola direzione, dove
la corsa delle onde finisce
ed è una spada l’orizzonte, e abbacina.
Strada della follia
Infuriano nei sobborghi i bagordi,
mentre nei pozzi il morbo
pianifica ecatombi;
di notte in notte, un dito nero sceglie
quale porta segnare
ma a caso o in base a una sua assurda logica.
Solo chi indossa trucco e naso finto
da pagliaccio, scamperà alla retata;
solo chi parla all’incontrario
e scoppia senza una ragione a ridere
passerà inosservato ai controlli,
sarà esentato
dal dichiarare chi sia e che abbia in tasca,
sarà risparmiato dalla Gorgone.
3 risposte a “Guglielmo Aprile, Farsi amica la notte”
Certo sono versi non disinvolti. Sono versi dell’anti materia, sono antipoesia. Sono il disincanto della fruizione della realtà pietrificata. Sono pietre e polvere che cerca di sedimentare, sono disvelamenti che combattono per resistere. Sono strenua e ironica resistenza.Con una deflagrazione pazzesca. Le parole hanno un incastro perfetto col pensiero e lo reggono lo supportano fino alla
abbagliamento estremo:
“la corsa delle onde finisce
ed è una spada l’orizzonte, e abbacina.”
Una presenza poetica forte, consapevole…
“Io questa nipote me la vorrei interrogare…”
… me compro er libro!
Grazie.
Un saluto a tutta la redazione.
(La lettura della Curci impareggiabile.)
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Bella anche la citazione da Miseria & Nobiltà…
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Se la verità su quello che ci attende dopo la morte fosse scritta su un biglietto, io quel biglietto lo lascerei ripiegato e non avrei il coraggio di leggerlo, perché leggerlo implicherebbe la possibilità di gettarsi da un parapetto o di spaccare vetri a testate; non sarebbe possibile vivere, se non fossimo un tantino ipocriti o codardi. Tutta qui, l’essenza di questo libro…
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