Guglielmo Aprile, Il talento dell’equilibrista, Giuliano Ladolfi Editore 2018
Il poeta equilibrista, funambolo sulla corda del disincanto, corda tesa consapevolmente oltre ogni immaginabile delimitazione, è sospeso, solo e a ‘ciglio asciutto’. Senza rete sulla pista del circo, sotto il tendone che chiamiamo mondo, rischia di schiantarsi nel vuoto delle etichette.
Guglielmo Aprile corre questo rischio, rasenta la posa del nichilista, e – in questo scorgo Il talento dell’equilibrista del titolo della raccolta – se ne ritrae. Costeggia il baratro e non sprofonda, in grazia di un atto di volontà, che scansa l’autocompiacimento e sceglie di proseguire l’azzardo della composizione poetica.
Ravvedo i due elementi fondamentali del talento dell’equilibrista nella sapienza compositiva e nella capacità di accostare immagini che la letteratura ci ha reso familiari ad altre inattese, di una bellezza spiazzante.
Per quanto riguarda la sapienza nel comporre questa raccolta poetica, non sfuggirà al lettore la esplicitazione di un programma poetico nei titoli delle tre sezioni, rispettivamente in latino, in tedesco e in italiano: Nequiquam, Bildungsroman e L’ignoranza.
Nequiquam sta per l’italiano “invano” e invano l’umanità si agita contro la propria caducità. Guglielmo Aprile sottopone all’attenzione di chi legge una galleria di quadri sulle cocciute cantonate che ci irretiscono in binari di sogni e vane aspettative; sono binari sui quali corrono treni il cui tragitto non potremo mai determinare, alla cui guida, soprattutto, non saremo mai. Luoghi e oggetti si caricano di energia espressiva: bagnasciuga e castelli coi tappi dei succhi di frutta, stazioni ferroviarie e bidoni dell’indifferenziata, sale d’attesa e cruciverba.
Come in un Bildunngsroman, in un romanzo di formazione, dunque, la seconda sezione ripercorre i momenti salienti del percorso umano, o, per esser più precisi, del percorso dell’io poetico, dall’ingenua e ingorda interrogazione alla propria esistenza, agli altri e al ‘mondo’, alla constatazione dell’eterna sfasatura (così il titolo di un testo) «tra le parole del banditore/ e l’interno della scatola colorata;», giacché «i denti caduti e seminati non daranno raccolto».
L’ignoranza, pare suggerire la terza sezione, è la causa dello ‘stato di minorità’ ovvero della «sindrome di Stoccolma» (Ostaggi), in cui la gran parte degli umani si ostina a vivere, prigioniera com’è di desideri indotti e di involucri mendaci.
Il talento dell’equilibrista, ho affermato poc’anzi, si manifesta nell’arguto accostamento di immagini non inconsuete – tra queste, ne evidenzio due: il trasloco, che fa pensare allo Sgombero dell’omonima poesia di Michael Krüger; il ghiaccio che blocca e condanna alla fine – ad altre, inusuali e inaudite. Una per tutte: il varano, la cui presenza, negata socialmente eppure persistente nel chiuso dell’abitazione privata, esprime con notevole efficacia il dominio di forze sterminatrici (si pensi al varano di Komodo) sull’asfittico ecosistema dell’esistenza umana sulle piazze e nelle stanze segrete: «ma rientrato a casa/ i resti del pasto del varano sul pavimento// sono ancora là.»
© Anna Maria Curci
Orma di sabbia
Me ne intendo di cose che finiscono.
La pioggia laverà
senza troppa fatica né scrupolo
dichiarazioni d’amore e scritte oscene
sui muri della stazione;
dove oggi la città innalza i suoi gonfaloni
rinverranno fra qualche tempo
la vertebra di un pesce preistorico;
lo scorpione sopravvivrà all’uomo
di parecchi deserti:
è molto più incline a venire a patti
con la sabbia e il vento, e ne sarà risparmiato.
Chiedendo un’altra proroga
Un giorno intero
a cercare soluzioni al rompicapo enigmistico
sull’ultimo numero della rivista,
cosa si sia risolto
sarà la nettezza urbana a dircelo.
Il castello coi tappi dei succhi di frutta,
per quanto ne andiamo così orgogliosi,
lo dovremo buttare giù
prima che il furgoncino dei rifiuti
si fermi, all’alba, sotto il nostro civico;
farà presto
il mondo che fu nostro
a scivolare nelle immense mole
dell’impianto di compostaggio.
Ripensamento
Il cartone è il materiale più deperibile,
refrattario alle mani
che hanno speso anni per mettere a punto
la corretta tecnica di imballaggio:
non ha tolleranza
per urti accidentali e perdite d’acqua,
si spugna o si ammacca
ad ogni curva a gomito, ad ogni dosso
che preso a velocità troppo alta
mette a dura prova i fasci lombari
e obbliga a un ripensamento
degli obiettivi di fondo del viaggio:
gli scatoloni si aprono
prima della consegna,
la linea di sutura cede sotto un peso
eccessivo, il carico va disperso:
la vecchia abitazione non era poi così male,
questa la conclusione di ogni trasloco.
Conti da chiudere
Ancora molta
la cenere da riversare nel fiume,
molte le cene da saltare,
prima di un’assoluzione.
La sera esci, ti distrai
racconti alla prima che capita
come ti trovi con la bici nuova,
ma rientrato a casa
i resti del pasto del varano sul pavimento
sono ancora là.
Ostaggi
C’è chi, malgrado
il peggioramento del meteo
e l’instabilità dei mercati,
riesce a non pensare
ai calcinacci nello stomaco,
alle scarpe che si arrugginiscono:
accenna perfino un passo di giga
sul violino dei passeri alle cinque;
affezionarsi alla primavera,
sindrome di Stoccolma
verso un sequestratore che si fa degli scrupoli,
in fondo nemmeno così cattivo.
Il giorno dopo
Il romanico della neve
dona una certa grazia all’inverno
e alle sue geometrie rachitiche:
spegne il morso della lebbra
sugli zigomi delle strade,
smussa i canini agli alberi;
poi la mammella del cielo
si sgonfia: il fango svela
sotto quel soffice marmo il suo inganno,
è una bugia che dura un giorno
il bianco.
3 risposte a “Guglielmo Aprile, Il talento dell’equilibrista”
Eccellente raccolta che ho letto con particolare interesse. Concordo sull’analisi di Anna Maria riguardo alla capacità di concepire immagini inaudite e originalissime.
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Ti ringrazio. In quelle immagini ho cercato di essere kafkiano: nel loro girotondo straniante e nel loro automatismo demente volevo mettere tutto l’assurdo, l’irredimibile mancanza di senso che trasudano dalla maggior parte delle cose in cui la nostra vita, e la mia soprattutto, vedo sciuparsi.
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Che trasuda
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