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Davide Zizza, La poetica felice di Hai Zi

hai zi DEL VECCHIO
Nella grazia che illumina il mondo.
La poetica felice di Hai Zi

 

In poesia la parola è un seme che scende in profondità in quel terreno che è la nostra coscienza, si radica fino a far nascere qualcosa, un moto di commozione, un flash, uno stupore. È un fermo immagine sul momento che, al tempo stesso, apre finestre su luoghi che, prima, non si consideravano; una poesia apre all’inatteso. Ho, davanti a me, il libro di poesie di Hai Zi, pseudonimo di Zha Haisheng (1964-1989) – il poeta scelse per sé questo pseudonimo che in lingua mongola significa «lago» –, lo apro a caso e trovo a p. 87, nel gruppo di poesie dedicate alla madre, la quinta intitolata Linguaggio e pozzo:

Di per sé il linguaggio
sembra una madre
ha sempre da dire, a bordo fiume
tra le due sponde dell’esperienza
tra le due sponde dei fenomeni
i fiori sembrano mogli gentili
orecchie attente in ascolto e poesie
riempiono il campo
ascoltano l’acqua che soffre

acqua che si ritira lontano.

Il linguaggio, assimilato alla delicata figura di una madre, parla «a bordo fiume», non si situa al centro, ma lascia spazio, ponendosi tra le due sponde «dell’esperienza» e «dei fenomeni», mentre orecchie in ascolto e poesie ascoltano un’acqua che soffre e che «si ritira lontano». È, a mio avviso, una dichiarazione di poetica. Basterebbero questi versi per capire che davanti a noi si schiude uno scrigno fulgido, che risplende di contemplazione, senza tralasciare i moti della malinconia. Il poeta, una volta inspirata l’esperienza, attraversata dal suo occhio limpido, la restituisce in un soffio sulla carta. La mano di Hai Zi ricorda la grazia meditativa di Lu Ji («ogni scrittore scopre una nuova via daccesso al mistero» leggiamo in Larte della scrittura) o il raggiungimento dello zen: quando cessa il rumore (di sé e del mondo), la poesia si fa atto puro, l’io si annulla per far posto a qualcosa di più grande, il verso diventa una lama di luce. Di lui si conoscono le umili origini; sappiamo che crebbe in una Cina arcaica e rurale (dove troviamo la «terra nera», simbolo di fertilità e la «terra gialla», simbolo di povertà) negli anni della Rivoluzione culturale in cui emerse la cosiddetta «poesia oscura» (Bei Dao per fare un nome fra i rappresentanti); fu un enfant prodige, entrò giovanissimo nella rinomata Università di Pechino; condusse un’esistenza fatta di gesti essenziali, meditazione, lavoro, pochi amici, cui si aggiungono una febbrile produzione poetica (dal 1984 al 1989 oltre «due milioni di ideogrammi tra poesie, romanzi, teatro e saggi», dice il fratello del poeta in una lettera inclusa nella presente raccolta) e, ci ricorda il curatore del libro, Francesco De Luca, viaggi, viaggi in cerca di ispirazione, viaggi di ricerca spirituale nelle regioni lontane dal controllo e dalla modernità. Alcune immagini lo ritraggono capellone e con un sorriso sincero e luminoso. Tuttavia le foto e le poesie, scritte con un taglio autentico e profondissimo, non farebbero trasparire una morte suicida avvenuta a soli venticinque anni, la morte volontaria tanto diffusa in Cina. In verità questo scrigno appare più articolato, ci illumina non solo sul raccoglimento interiore ma, e direi soprattutto, sugli stati d’animo del poeta. Giungiamo qui a un punto nodale, cioè il dissidio interiore di Hai Zi verso un tipo di mondo, quello industrializzato e alienato della Cina moderna, poco interessata alla poesia, in contrasto con le zone di campagna, un dissidio che riflette una precisa volontà a non adattarsi a quella storia soggetta a una consumata vita metropolitana. Per questo il suo verso è arioso e non dà spazio alla bruttura contemporanea in cui è invischiata la vita umana. Hai Zi percorre il suo cammino senza perdere lo stupore («Vivo in un mondo prezioso/ dove il sole è forte/ l’onda gentile», p. 63); riflette sul tempo («io e il passato/ dividiamo una terra nera/ io e il futuro/ dividiamo un’aria senza suono», Io, e gli altri testimoni, p. 29); sente compassione, nel significato di «sentire, patire con», quando si avvicina a una figura, umanamente disperata come Van Gogh, per far sua la pena e la follia dell’esistenza («anche tu/ erutti il tempo rimasto di vita/ e se un tuo occhio può illuminare il mondo/ tu ancora usi il terzo occhio, il sole di Arles/ per bruciare il cielo stellato in un ruvido flusso d’acqua», Il sole di Arles, p. 23) e quindi fra il poeta cinese e il pittore olandese si forma il punto d’unione nella meditazione sul tema del suicidio. Leggiamo il suo pensiero sulla morte, una morte-in-vita («Quando son nato ho pianto un po’/ quando sono morto han pianto gli altri», p. 75), a volte persino evocata («Al tramonto sogno la mia morte/ come un agnello che si perde a Occidente/ là dove il sole scende», p. 123), leggiamo del suo amore puro come un fiore (Per il compleanno di B., p. 123, Diario, p. 179). Eppure, a fronte del dissidio che lo rendeva fragile, si addensa nelle pagine un desiderio irrinunciabile alla felicità («Non posso rinunciare alla felicità/ o al contrario/ Io che ho fatto del dolore la mia vita […]/ osservo fisso le persone», p. 77) perché Hai Zi è, e vuole essere, «un uomo incomparabilmente felice» (Alba, p. 143). I suoi versi disegnano un andamento continuo dalla terra all’acqua e al cielo e viceversa, un movimento armonioso come le descrizioni della natura, senza tempo, senza categorizzazioni, scevra da dissonanze; sentiamo con lui quel soffio di libertà e commozione davanti alla vita. Da qui percepiamo un perfetto punto di congiunzione fra il poeta e l’uomo, l’umanità e la poesia si fondono fino a mescolarsi e, pertanto, non vi sono differenze: poeta e uomo hanno un unico volto. Comprendiamo che la luminosità e la semplicità di Hai Zi non sono meno cariche di quel mistero che avvolge l’esistenza e di quella strenua resistenza a scendere a patti con gli aspetti più estranianti dell’esistenza stessa. La sua poetica incalza alla gioia, consapevole del dolore del e nel mondo. In altre parole, Hai Zi voleva essere poesia perché solo così poteva essere un uomo felice. Hai Zi le sue meravigliose poesie, qui curate con acume e finezza da Francesco De Luca, sono venuti al mondo a passi silenziosi e con un silenzio il poeta, da poco più di trent’anni, ci ha lasciati. Eppure è un silenzio così fragoroso da non farci più dimenticare la sua figura e una sua lezione, ossia che la lucida persistenza di uno sguardo poetico verso la vita non è cosa vana perché è uno sguardo di grazia capace di riconciliare luomo ai giorni.

@DavideZizza

 


Hai Zi, Un uomo felice, a cura di Francesco De Luca, Del Vecchio Editore, 2019

Una replica a “Davide Zizza, La poetica felice di Hai Zi”


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