Il nuovo lavoro del regista Pierfrancesco Li Donni, appena uscito e già miglior film italiano al Biografilm Festival, segue le storie di tre ragazzini, Daniel, Desirée, Simone (e a ruota dei loro compagni e del professore di Lettere), nel passaggio dalla terza media all’adolescenza piena, vissuto però con fretta inconsapevole e arrabbiata, in una zona di Palermo di quelle in cui si vive un tempo un po’ sfalsato rispetto al resto della città. Il film è spesso immerso in una luce livida, ritmato da una musica sospesa. I tre protagonisti credono di avere già un’idea chiara del loro futuro immediato (idea che in due casi si capovolgerà). Simone di pomeriggio si prende cura dei cavalli nella fattoria del nonno, dopo le medie vuole andare a vendere la frutta. Daniel ha un grande talento per l’elettronica, premura di lavorare, all’inizio lo sappiamo sospettato del furto di un microfono a scuola. Desirée vorrebbe insegnare, gira per la città con la sua amica Morena, prendono il tram, vanno al porto a guardare le navi. Forse la prospettiva ideale per vedere il film è quella da fuori, esterna, non palermitana e non siciliana, che poi è quella da cui è stato valutato e premiato. Sappiamo infatti che dal Gattopardo in giù le rappresentazioni della Sicilia sono state spesso viste, dai siciliani stessi, come un modo ulteriore per inchiodare il Sud al suo destino storico, per disegnarlo immobile e irredimibile. Aggiungiamo che il film si muove dentro un Sud del Sud, in un quartiere per brevità definito a rischio, periferia atipica, adiacente al centro storico. Chi vive a Palermo sa che la città funziona a quinte, che dietro viali e teatri eleganti può apparire girato l’angolo una strada di rifiuti o una facciata deteriorata, che dietro il Politeama comincia Borgo Vecchio, e a pochissima distanza dalla Cattedrale e dal Palazzo Reale inizia appunto il quartiere Zisa, dal nome arabo di un castello normanno che con il suo giardino tiene ancora a distanza i palazzoni. Il quartiere poi scende lungo l’avvallamento del vecchio fiume Papireto e diventa una periferia verso il basso. E lì sappiamo, alla Zisa come altrove, che ci sono difficoltà, tentazioni in più, ma anche uno stigma automatico che colpisce tutti. Insomma, uno spettatore palermitano dovrebbe resistere innanzitutto al rischio di sentire ribadito ciò che teme o rifiuta, e non piuttosto ciò che il film davvero dice.
Poste queste premesse, io che scrivo sarei allora l’osservatore meno adatto, non solo vivo a Palermo, e casa dei miei è a pochi passi da quel quartiere, ma ho anche conosciuto da uno spiraglio di esperienza quei ragazzini e la loro classe, come docente, sperimentando per due ore settimanali la loro vitalità che andava spesso fuori controllo. Ma proprio questa conoscenza diretta mi permette di aggirare gli equivoci di ricezione dovuti al genere ibrido del docufilm, che richiede molto tempo proprio per far emergere naturalezza e verità, se pure in favore di camera, e secondo uno sguardo e un’intenzione artistica. E allora alcune battute risultano talmente riuscite da sembrare quasi stabilite a tavolino, ma non lo sono affatto, come quando Desirée, in un modo tra il sibillino e l’infantile, si chiede al porto “come ha fatto ad esistere la sabbia”; o quando il nonno di Simone dimentica l’età del nipote, e trasecola scoprendo che gli mancano ancora due anni per completare l’età dell’obbligo; o quando Daniel un anno dopo, cresciuto, maturato, racconta al suo professore che continuando gli studi sta imparando “a dare un nome alle cose”. Proprio il rapporto con il docente di Italiano, Giovanni Mannara, ha un ruolo centrale nel film. Già che tira aria di concorsi, le sequenze girate in classe sono quasi un vademecum su come insegnare, non soltanto nelle cosiddette scuole difficili. Giovanni ha un approccio dialogico, socratico, spinge i ragazzini a parlare di sé stessi, cerca l’aggancio tra i contenuti disciplinari e il vissuto dei suoi alunni. Così il viaggio di Dante, con i suoi tentennamenti, diventa anche un modo per ragionare sulle rinunce e sull’abbandono scolastico; un passaggio da Seneca, sul cavallo giudicato da sella e briglie, la via per confutare i pregiudizi di classe; i poeti maledetti un espediente per riflettere sulle famiglie omosessuali. Queste lezioni sono il momento apollineo contrapposto al dionisiaco delle strade, come la scena della vampa di San Giuseppe, con le corse, le urla, i cori contro la polizia e i carabinieri. Il professore invece smorza i toni dei suoi allievi, li porta al Teatro Massimo a vedere un balletto, si presenta soprattutto radicalmente diverso rispetto al loro contesto. In questo caso “la sella e le briglie” contano qualcosa, un docente dall’aria un po’ dandy, ma nient’affatto debole (e il regista lo sottolinea, con la sequenza in cui tira di boxe), che con quell’eleganza desueta sembra dare importanza a sé stesso ma anche ai suoi interlocutori, che ricambiano l’attenzione. Anche questa sembra una stranezza, un’incongruenza costruita ad arte per un film, e invece è proprio così.
Tornando agli spazi della città, se il tema, uno dei temi del film è la crescita, il passaggio da una fase all’altra, allora crescere qui equivale a uscire dal quartiere. Lo dice più volte Desirée, sognando viaggi (“Che bella nave, voglio partire!), immaginando insieme a Morena il futuro (“Noi due saremo uscite dalla zona”). Un anno dopo invece scopriamo che non ha continuato gli studi, lavora in un panificio, irrigidita dentro discorsi e responsabilità decisamente anzitempo (“Sono il contrario di come dovrei essere”, “I sogni sono sogni, la realtà è questa”), di certo appresi altrove, sentiti a casa (“Mia madre vuole che vado a lavorare”). Il film ci suggerisce visivamente una simmetria tra le coppie oppositive infanzia/età adulta, basso/alto, periferia/centro, attraverso la visione lontana e maestosa di cupole e pinnacoli visti dalle finestre della scuola, il Teatro Massimo inquadrato da un piano elevato, o anche nella scena finale lo stabilimento balneare semibuio a Mondello. Il quartiere diventa insomma una periferia essenziale che ci si porta dietro, uno scarto, una separazione, “tutte le periferie del mondo”, per usare le parole dello stesso regista (La Sicilia, 17 giugno 2020). Se questo film è stato per Li Donni un modo per misurarsi con la propria città una volta rientrato, la scelta di una zona di Palermo così emblematica e carica di contrasti non poteva non funzionare anche da specchio per esperienze lontane ma simili, o anche molto diverse ma accomunate da un sentire periferico che davvero oltrepassa i limiti delle mappe. Prendiamo l’altro toponimo più famoso del quartiere, via Colonna Rotta, che appare all’inizio del film come scritta su muro, un nome parlante, affascinante, legato a una colonna di marmo destinata alla chiesa di San Giuseppe dei Teatini, in pieno centro storico, che si ruppe durante il trasporto proprio in quel tratto. Colonna rotta è la strada, la parte per il tutto, indica spesso l’intera zona, ma è anche la metafora perfetta della città, che per molti aspetti è davvero questo, grandezza antica in ginocchio, gloriose vestigia sgarrupate, e ricorda così altre metropoli, altri contesti. Seguendo questi allargamenti di senso, non perdo di vista la differenza che fa per le nostre vite il fatto di nascere in una città piuttosto che in un’altra, in un quartiere piuttosto che in un altro, e il film mostra infatti un disagio sociale ben localizzato, il problema della dispersione scolastica, della disoccupazione, la frontalità nei confronti delle istituzioni. Ma poi l’arte produce qualcosa in più, colma le distanze, di fatto capovolge quella diffidenza e quei sospetti di cui parlavo all’inizio. E allora sarebbe bello che ogni spettatore trovasse in sé la libertà di identificarsi almeno un poco con questi ragazzini, e di pensare: Simone, c’est moi, tutte le volte che mi è capitato o mi capiterà di vivere di espedienti; Desirée, c’est moi, quando mi incaponisco e le cose non vanno come dovrebbero e potrebbero; Daniel, c’est moi, quando combino disastri ma poi con estro e talento mi riscatto. Mi pare che il cinema come la letteratura abbia questo potere, trasforma un quartiere in un quartiere-mondo, scova universalità e somiglianze nell’alterità e nelle differenze. Per questo il film di Li Donni non idealizza né condanna, non giudica, ché tra sbagliare e indovinare la propria strada ci passa sempre pochissimo, non soltanto alla Zisa.
Una replica a “Un quartiere-mondo: “La nostra strada” di Pierfrancesco Li Donni”
L’ha ripubblicato su A proposito di un cane in livrea.
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