Tommaso Di Dio, Verso le stelle glaciali
Interlinea 2020
È uscita a febbraio Verso le stelle glaciali, ultima raccolta di Tommaso Di Dio, pubblicata nella collana “Lyra giovani”, curata da Franco Buffoni. Va subito chiarito che la lettura di questo libro richiede un approccio ermeneutico da parte del lettore, viaggiatore aggiunto a questo “folle volo”. La struttura solida che lega i singoli testi necessita poi di un’esegesi che tenga presente ogni connessione intratestuale. Il titolo, Verso le stelle glaciali, indica la tensione a una meta già di per sé irraggiungibile in quanto inesistente ma, come dichiara l’autore nelle note al testo, diviene «l’unico orizzonte che possa rendere pienamente reale il vero come il falso di tutto ciò che è stato e che non è stato». L’avvertenza ci introduce a una composizione in quattro itinerari che ognuno percorrerà a suo modo, non tanto per approdare a una destinazione finale, quanto per perdersi durante il viaggio dalle proprie coordinate spazio-temporali. E qui Di Dio ci suggerisce la postura del lettore, che non sarà frontalmente rivolto verso il testo ma dentro al testo almeno quanto lo è il suo autore. A proposito del discorso poetico sulla centralità dell’Io si può dire che qui l’Io autoriale cerca di sparire lasciando al lettore la possibilità di impossessarsi del testo per farne vascello del proprio viaggio. E ogni viaggio sarà diverso. Le mappe costituiscono un altro elemento che ci aiuta – sempre in quell’obbiettivo di viaggiare per perdersi e non per arrivare – non a orientarci ma a disorientarci. O meglio, a interrogarci. Sono infatti mappe del possibile criptiche e allegoriche che la sola vista non basta a decifrare. Sono mappe riflettenti del sé che scatenato processi cognitivi imprevedibili. Come un test di Rorschach ma senza griglie di lettura. Basti pensare alla mappa uno, che potrebbe raffigurare uno specchio rotto, così come un albero riflesso nell’acqua o chissà quante altre possibilità. O le maschere delle mappe due e tre, che si indossano per vedere sé stessi e al contempo per non esserlo più. La citazione in epigrafe è da Cristoforo Colombo, l’Ulisse del mondo moderno, l’abbattitore delle Colonne d’Ercole che qui spinge la sua ciurma a un viaggio in mare titanico, al limite dell’umano ingegno. La prima dichiarazione di poetica Di Dio la fa proprio qui, scegliendo il personaggio di finzione attraverso cui tutti seguiremo il cammino e mettendo in chiaro che questo viaggio sarà un viaggio della mente.
I quattro itinerari, come l’autore stesso ci suggerisce, conducono tutti al medesimo non-luogo, l’ampio universo della dissoluzione del sé dove l’Essere si afferma, dove si galleggia liberi dal proprio peso (come raffigura la mappa cinque). I diversi percorsi sono direzioni che portano a un continuo interrogare filosofico della mente – sulla propria storia, sul corpo, sull’esistenza di una terra di approdo – per distogliersi infine da sé stessi e alzare lo sguardo verso la luce delle stelle.
1. Hanno freddo Le strade, la storia: hanno freddo gli umani per togliersi di dosso la propria storia, le proprie strade già tracciate. Inizia il viaggio – che va detto richiama nella sua tensione a “virtute e canoscenza” quello dell’Ulisse dantesco – con una lenta affermazione dell’esistenza umana in quanto testimone di una storia che si fa per strada, «seduti sulle sedie, o in piedi/ dietro il banco», «su di un lato del bar, il grande vetro mostra/ la strada con la gente, i muri, le case», di una storia fatta della «ragazza che camminava incinta», di «quel giovane uomo immigrato», della «donna con le scarpe da ginnastica». Ma se la mente si interroga chiede altro, chiede di andare oltre questo semplice vedere, di incamminarsi oltre gli spazi reali.
[…]
Mente mia; lucida, chiara
Inesistente. Che vedi ciò che vedi
i muri dei palazzi e il metallo
dei carrelli della spesa. Tu che compiti
sulle dita
il grano che nasce e la polvere che vortica
nell’universo mondo mare aperto e solare
cerca; se qualcuno ha la chiave
chiamalo e portalo qui. Perché anch’io infine veda
e senta
interamente questa che sento e vedo
canzone della terra.
2. L’occhio azzurro L’ospedale, la caverna: avere un corpo significa avere un peso, un posto. Senza niente addosso, si va nella caverna. L’occhio in questa sezione fa da tramite all’esperienza che si scaturisce nella mente. L’assistere alla fine biologica di un corpo nell’ambientazione dell’ospedale (luogo reale della sezione) scatena una nuova energia che viaggia dritta verso la primitività della caverna, il luogo della mente di questa seconda sezione. «Qualcosa nelle vene ancora/ da dove non si sa ci riporta tutti/ in una preistoria senza spazio» dove domina una lingua fatta di «scheletri di pesci», «teschi di orso», «residui di fuoco». Si va verso l’scurità, si tende alla mitologia primitiva che anticipa il logos, dove l’uomo è quello dipinto «sulle pareti di pietra». La dissoluzione del corpo è stata compiuta, ora si tende là dove neppure il linguaggio può arrivare.
[…]
Guardi
oltre il letto, oltre il tavolo. E per tutta
l’estensione tu sei
dimensione di nulla spazio né tempo, quasi non più
cognizione né memoria. Dentro la caverna hanno trovato
residui organici, rocce e frammenti di corno
sbozzato in zagaglie. Per ragioni oscure
in fondo a tutto questo; sulle pareti di pietra
e con milioni di mani
è stato dipinto un uomo.
3. 1492 Il mare, la mente: il mare porta al cielo, si dissolve la terra, tutto è un’illusione della mente. Qui compare la figura di Colombo – la sezione è una trasposizione del diario di viaggio – nella sua versione più prossima all’Ulisse dantesco che deve più volte mentire rassicurando i compagni sulla prossimità di una terra. Invece la mente si interroga sull’esistenza stessa di una terra, «E se questo mare non finisse. Se ci fosse altro mare/ oltre il mare», riconoscendo i limiti dell’umano e ammettendo l’illusorietà di arrivare là dove non si può.
Il mare è liscio
Il mare è un fiume
l’aria è dolce e gradevolissima
Proseguii; sino a che riconobbi
. che la creduta terra era semplicemente
il cielo.
4. Verso le stelle glaciali Il vento, i pronomi: il vento si porta via i pronomi – io, tu, egli – il vento ci cancella, dissolti nel vento siamo arrivati. Distolto lo sguardo da noi stessi si va verso le stelle glaciali. L’ultima sezione è anche quella che le contiene un po’ tutte, che trae le somme filosofiche del cammino poetico. Interrogare la mente non ha voluto dire costruire sistemi ma addirittura forse liberarsi del logos stesso. E in questa operazione sembra che il linguaggio poetico costituisca l’unico linguaggio possibile a liberare le parole dalla loro gabbia ingannevolmente significante, restituendoci la semplicità senza costruzione. «Dove si va/ amici, le parole finiscono», si va verso l’indicibile, verso il vero. E di fatti la poetica di Di Dio gira intorno a quell’alzare lo sguardo che è la meta dei quattro itinerari, ossia una direzione, una prospettiva diversa con cui vedere il mondo. Quella luce delle stelle dantescamente rivelatrice.
Allora alziamo gli occhi; guardiamo. C’è una casa
un muro; una scuola dove
i ragazzi entrano piano. Una tazza
la mente
sul tavolo c’è una lampada; il televisore era qui
ma è un ricordo, adesso, un fantasma.
[…]