In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
«La mente, oceano dove ogni specie/ subito trova le sue somiglianze». L’ha scritto Andrew Marvell – amico e collega di John Milton –, ed è un verso tratto dalla poesia The Garden, che troviamo citata da Elémire Zolla nel suo preziosissimo saggio Discesa nell’Ade e resurrezione. E, senza difficoltà alcuna, a questa ricerca vagabonda e dionisiaca possiamo ricondurre, in generale, la mente del poeta e, nel particolare, quella visionarietà analogica di Dylan Thomas. Analogica perché le forme del pensare diventano forme d’immagini (famosa la sua dichiarazione di poetica: «Una mia poesia ha bisogno di una falange d’immagini») in cui il poeta di Swansea riversava la sua furiosa e selvaggia ispirazione metafisica. Forse il senso della sua poetica sta tutto qui, nella musica dell’essere, nel paradiso, nel pardès della parola, la cui consapevolezza compositiva era, secondo Giorgio Melchiori, molto affine «alla disciplina tecnica di un musicista». Dylan Thomas, inizialmente, venne accostato agli Apocalittici, ma, come ben sottolinea Mario Praz, aveva una sua autonomia creativa che si discostava dalle correnti; lui, che può condividere con Rimbaud, Donne, Mallarmé, Yeats, persino la Dickinson, una visionarietà pura e altamente simbolica, vanta dalle sue un verso con un accento, una lunghezza e un’impennata che ricordano molto il poeta gesuita Gerard Manley Hopkins. Cercare somiglianze. La mente, in tutto il suo percorso, fa questo e ancor più lo fa il poeta consapevole. Pertanto il pane spezzato, che ricorda il sacrificio di Cristo, diventa anche il pane, la carne, il sacrificio di ogni uomo che provvede all’umanità, e il vino che noi beviamo, riflesso di quel sangue che purifica tutto, è il sangue dell’uomo che ha lavorato e lavora per il mondo. È in pratica il gesto atavico della vita che si genera dalla morte e corrisponde, per Thomas, non solo alla simbologia cristiana, ma anche nel sacrificio quotidiano e nel sacrificio del poeta che muore alla poesia per dare parole agli uomini («ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti» leggiamo ne Il mestiere di vivere dell’indimenticabile Pavese). La poesia si fa, quindi, testimone di un atto laicamente, ma non meno spiritualmente, eucaristico. Da qui possiamo conciliare quanto ha detto Borges riguardo al fatto che a un poeta non è dato di sapere ciò che scrive: il poeta non può saperlo subito, ma può intuirne i passi e seguire la viva ispirazione che gli fa da lanterna. Così è accaduto per Dylan Thomas, poeta che, a parte alcuni argomenti occasionali, riservava profondamente alla creazione i suoi argomenti più cari: la nascita e la morte e dalla morte la risurrezione nella parola, parola che, come un’Araba Fenice, sondava nuovamente il mistero fin dai suoi balbettii, dalla nascita dell’uomo fino alla sua dispersione. Non sarebbe sbagliato vedere in lui un novello Shakespeare o un mistico moderno quale continuatore della percezione infinita di William Blake. La poesia è quella «verde miccia» (o anche «il verde calamo» nella splendida versione montaliana della poesia La forza che urgendo nel verde calamo guida il fiore) da cui fiorisce il segno dell’umana esperienza.
Bibliografia in bustina
D. Thomas, Poesie (traduzione e note di A. Marianni, con un’appendice di versioni di E. Montale, P. Bigongiari e A. Giuliani) Torino, Einaudi, 1965 (nuova edizione riveduta e aggiornata, 1970).
E. Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1948; Milano, Mondadori, 1975, ora in E. Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984.
G. Melchiori, The tightrope walkers. Studies of Mannerism in modern English literature, Londra, Routledge & Kegan Paul, 1956; G. Melchiori, I funamboli. Il manierismo nella letteratura inglese contemporanea (trad. italiana di Ruggero Bianchi), Torino, Einaudi, 1963. 2ª ed. riveduta e ampliata, I funamboli. Il manierismo nella letteratura inglese da Joyce ai giovani arrabbiati, Torino, Einaudi, 1974; ristampa 1989.
M. Praz, La letteratura inglese dai Romantici al Novecento, Milano, Rizzoli, 1975, 1999.
E. Zolla, Discesa nell’Ade e resurrezione, Milano, Adelphi, 2002.