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Alfredo Rienzi, Partenze e promesse. Presagi (recensione di Annalisa Rodeghiero)

Alfredo Rienzi, Partenze e promesse. Presagi
punto
acapo Editrice, 2019

Nota di lettura di Annalisa Rodeghiero

 

Sapiente e ricercata, meditativa e tagliente, la poesia di Alfredo Rienzi in Partenze e Promesse. Presagi, ancora una volta si pone al lettore come gesto di profonda riflessione e sempre nuova ricerca sul senso della vita e della morte. È una poesia interrogativa in cui biografia e impeto universale della parola poetica si intrecciano e allo stesso tempo sanno trovare una linea di confine. C’è infatti tutto un peso di esilio e di assenze reali che, delineate con commozione, nutrono la poesia e c’è la percezione di una solitudine universale che pervade il vissuto e si fa carne nella parola. Parola che una volta «detta, si dissolve» violando il silenzio. Eppure il poeta non può non scrivere del silenzio, interrompendolo:

Resiste qualche raro verbo fossile:
sta, aspetta, disperde.
Questo vuole l’ebbra superficie:
al troppo dire, al morso dei ragni
opporre silenzi di arenili
boccheggii di meduse.
(pag. 15)

Qui regna ancora il silenzio: non dice
nulla, neppure quanto manca al giorno.

(pag. 96)

È la fede nella parola, anche quella dei poeti e dei profeti nominati nella raccolta che spinge a infrangere il silenzio con il gesto creativo della poesia: «la parola insiste/ non vuole perdersi».
Nel percorso interiore di Rienzi, che svela lo spaesamento dell’uomo di fronte alla inafferrabilità dell’esistenza, timore e fiducia vanno spesso a braccetto, la fiducia gettando una luce sull’ombra:

Alzati adesso!
fiducioso come dell’aria l’ala:
sta la tua partenza davanti a noi
seguine i passi, nell’ora dell’alba
quando la notte rinuncia a se stessa.
(pag. 25)

C’è tutto un ridondare di opposti che trasudano da ogni pagina a ricordare l’armonia che da sempre, ciclicamente regola l’universo. Un continuo ribaltamento dell’alba nella notte e viceversa, del bene nel male, della prudenza in ardore, della gloria in sconfitta, del passato in futuro e di ciò che sarà in ciò che già è stato, in eco di rovesciamenti che colgono a sorpresa il lettore, meravigliandolo:

e il gallo canta come fosse mattina
E la mattina si allarga come fosse l’ultima.
Lo sai: prima di quella di domani.

(pag. 45)

L’aurora e il tramonto dicono di un solo rosso in cielo
l’identico presagio
la stessa circostanza che ritorna.
(pag. 63)

C’è un andare nel tempo, «che non è l’intruso», a cui corrisponde un’andatura nello spazio, successione interminata di luoghi da cui nascere e credere di esistere nei tanti versi che contengono irresistibili rimandi alla amata poesia eliotiana. E se nell’incipit di Burnt Norton, primo dei Quattro Quartetti di Eliot leggiamo «Il tempo presente e il tempo passato/ sono forse presenti nel tempo futuro e il futuro è racchiuso nel passato», l’interrogativo chiave in Partenze e promesse. Presagi, non a caso è (come sapientemente suggerisce Ivan Fedeli in postfazione): «E ci sarà tempo? ci sarà tempo davvero, J. Alfred? Non per cento, ma per una visione ci sarà ancora tempo?». Un dialogo a distanza all’ombra dei versi del Canto d’amore di J. Alfred Prufrock in un virtuosismo compositivo di rara bellezza e forza espressiva nel gioco dei ruoli e dei nomi. Ci sarà tempo per capire cosa significa notte e quanto manca ancora al giorno se il buio è continua necessità e «sotto, dentro, diffidiamo delle albe?» Ci sarà tempo per l’attesa di ciò che ancora manca se «Non basta il primo sguardo/ per dire se il sole sorge o è al tramonto», ci sarà se «ci si crede vivi e invece si è già morti,/ senza nemmeno accorgersi dell’ora?» Da dove nascerà altro dolore e quale prezzo chiederà per giungere ad altra sempre nuova conoscenza, oppure «a nulla serve all’uomo la memoria?»
Ogni lettore troverà negli spazi di assoluto silenzio tra le parole e i versi la propria personale risposta. Forse inconsapevolmente è questo, ciò che Rienzi chiede in cambio del dono del suo percorso fin troppo lungo «per ricordare i cento incroci/ le vie non scelte», consapevole che in fondo: «Si torna dove si è già stati».
Così inizia il libro, questo il titolo della poesia incipitaria che è già in sé poesia compiuta e suona come una sentenza, come spesso accade anche in certe altissime chiuse o titoli:

Nascondersi o smarrirsi
è un’esigenza come tutte le arti
(pag. 14)

Qui, in superficie, i verbi rinunciano
i presagi non dicono
(pag. 15)

Nulla più di una promessa
per propria natura, attira l’alibi e l’oblio

(pag. 43)

Non ha fine il tempo degli abbandoni
(pag. 24)

L’aurora e il tramonto dicono di un solo rosso in cielo:
l’identico presagio
la stessa circostanza che ritorna
(pag. 63)

L’attesa è arte
(pag. 73)

Ma forse s’intravede un faro a orientare il rimanente tempo dell’attesa: quel «poco tempo che ci concedono le grandi scelte» dipenderà dalla nostra capacità di individuare dentro di noi la vera mancanza necessaria al compimento del disegno, se è vero, come sembra suggerirci la poesia di Rienzi, che noi siamo il nostro desiderio.

© Annalisa Rodeghiero

 

La luce ai sotterrati

Non so se questo è il centro della stanza
se il mio è l’ultimo passo nella vita

è buio a quest’ora

la mancanza dice del bene più prezioso:
il cibo agli affamati, l’acqua agli assetati

la luce ai sotterrati.

 

L’attesa è arte
(Apocalisse, 2-3)

Le nostre opere conosceremo
fatica povertà tribolazioni
la nostra dimora.

Si offrono – aspettando
una qualsiasi stella del mattino:
alberi del pane e della vita,
corone e vesti lunghe
pietruzze bianche, inciso un verso nuovo
che sa capire solo chi l’ha scritto.

Il grimorio delle attese
ha pagine che lette sbiancano.
Il numero di pagina
è sempre e solo uno

d’altronde si sa bene che l’attesa
è arte, unica nostra profezia.

Così, senza neppure un diario, un minimo
congedo, l’ordine sommario che si deve
ci si crede vivi e invece si è già morti,
senza nemmeno accorgersi dell’ora:

pareva un suonatore d’organetto
tra una compressione e l’altra:
chi ha orecchi, ascolti
ascolti ciò che il vento dice…

 

Sta la tua partenza davanti a noi

Ed era nei tempi del figlio
che questo amore poteva
cominciare, e non cominciò.
(P.P. Pasolini, Profezia) 

O cominciò, ma non crebbe,
bruciò come paglia
come vento cambiò corso.
Chi disse? Chi ascoltò?

Che non vengano meno nell’ora della prova
i figli più dolci, i più silenziosi
i fratelli minori partiti nella notte
senza salutare le madri, senza
nient’altro che pane indurito e sale
di nascosto dai padri

.              che non tremino
alla prima ora dell’alba, nell’ora
del giorno se il giorno rinuncerà
.              a se stesso.

Alzati adesso!
fiducioso come dell’aria l’ala:
sta la tua partenza davanti a noi
seguine i passi, nell’ora dell’alba
quando la notte rinuncia a se stessa.