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Mascha Kaléko. Uno sguardo dolce e amaro (a cura di Nino Muzzi)

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Mascha Kaléko. Uno sguardo dolce e amaro
A cura di Nino Muzzi

 

Presentazione

Una vita da migrante
Mascha Kaléko viene da lontano e attraversa i dolori del mondo contemporaneo con una sorta di sorriso amaro nello sguardo.
Nasce nel 1907 in Galizia da genitori ebrei – di origine russa, il padre, e austriaca, la madre – che a partire dal 1914 si stabiliscono in Germania. Sono emigrati e Mascha percepisce questo marchio fin da quando frequenta la scuola primaria.
Da qui data e prende forma in lei il mito della straniera. Dovunque andrà nel corso della sua vita successiva, si sentirà straniera e rimpiangerà il Paese dove prima si trovava. Un quartiere di Berlino o un vicolo di Parigi a cui ha dovuto dire addio si stagliano nella sua memoria come una patria abbandonata. E quando si troverà rifugiata negli Sati Uniti, in fuga dalla Germania nazista, il suo cuore continuerà malgrado tutto a battere per l’Europa, dove alla fine farà ritorno dopo un lungo soggiorno in Israele.
Dal 1914 la famiglia vive in Germania, prima a Francoforte poi a Marburg e finalmente dal 1918 a Berlino. Qui, preso il diploma presso una scuola per ragazze di origine ebraica, s’impiega in un ufficio e frequenta come studente-ospite corsi di filosofia all’Università. Impara a conoscere il filologo Saul Kaléko con cui vivrà da sposata dal 1928 al 1938 e di cui porterà il nome per tutta la vita anche quando si troverà un nuovo marito nel musicologo, Chemjo Vinaver, con cui avrà il suo unico figlio.

Di mio alla fine che cosa lascerò?
–Tre smilzi volumetti e un solo figlio.
Il resto non è il caso di annotarlo.
Quel che ho da dire al vento lo dirò.

Dal 1938 al 1944 è un continuo arrabattarsi per arrivare alla fine del mese. Scrive di tutto, dagli spot pubblicitari ai libri per l’infanzia. Il marito non trova facilmente una collocazione professionale e non guadagna abbastanza. Dal 1944 al 1960 vive in America, ma non ritrova quella vena di scrittrice che l’aveva caratterizzata in Europa, dove aveva pubblicato le sue poesie su varie riviste nella Repubblica di Weimar, raccogliendo le lodi di scrittori come Thomas Mann, Else Lasker-Schüler, Erich Kästner ed entrando in contatto con cabarettisti del calibro di Ringelnatz e di Tucholsky.
Nel 1934 pubblica il suo libro più famoso: Das lyrische Stenogrammheft per i tipi di Rowohlt. Un libro che inizia da un’intervista con se stessa:

Sono nata da emigrati stranieri
in una cittadina, tutta pettegolezzi,
che ha due chiese, due o tre dottori,
e un grande manicomio per i pazzi.

E che proseguirà nella edizione del 1956 con un Post scriptum:

Ho viaggiato in lungo e largo, intanto,
in treno, in nave, fin oltre l’Atlantico.
Non fu curiosità quel che mi ha spinto,
quel che cercavo, niente di romantico.

E in effetti fu così. Per sopravvivere e tirar su il figlio Mascha relegò la scrittura al tempo libero residuale, forse come aveva sempre fatto in Europa, ma perdendo la vena creativa. L’impiegata Mascha Kaléko a Berlino tornava a casa stanca dal lavoro di ufficio, ma ogni tanto trovava la forza di scrivere una poesia:

Di giorno faccio l’impiegata ott’ore,
ho un lavoro e una paga che non basta.
Di sera scrivo una poesia, le volte rare.
Mio padre dice: ci mancava anche questa.

La sua patria è la sua lingua, quella lingua che in America non le serve più e che lo stesso suo unico figlio rifiuta:

Questo fu allora. In un’altra vita,
intanto, come il tempo corre avanti,
qualcosa è successo anche a questa vita:
ora ho anch’io un figlio di migranti.

Parole come “alien” impara a sillabare
e dice alla madre: “Don’t speak German, dear.”
Ad appena ott’anni deve argomentare
di sé, che è “allright”, benché di qua non sia.

Come il bimbo emigrato del Rettore May!
Quando osservo tutto questo daccapo …
Lui pensa quel che alla sua età pensai:
se la guerra finisce, la pace verrà dopo.

Come lei da bambina aspettava la pace per iniziare a vivere – e siamo nella Prima Guerra mondiale – adesso – passata anche la seconda – si ritrova madre di un figlio che vuol solo parlare inglese, ma sente già come lei di essere un estraneo che deve lottare per il riconoscimento degli altri. Deve lottare per la pace, quella pace, mai giunta, che ti permette di vivere anche con chi è venuto di lontano.

Il Cabaret della memoria
Nella mente e nella memoria di Mascha si apre sempre lo spazio di un cabaret. Questo spazio per lei rappresenta una scelta stilistica e una scelta di atmosfera sociale.
Nell’atmosfera del cabaret ci si muove in maniera scanzonata, anarchicamente. Siamo sempre in un compagnonnage con persone molto simili, che ti capiscono e ti perdonano ogni sberleffo, ogni marachella.
La condizione per cui tutto ciò si realizzi è però molto chiara: devi essere un poeta “cantabile”. Ma per essere cantabile ci vuole l’uso del verso e della rima, oltre alle scelte lessicali rigorosamente popolari e all’ironia sulle “cose serie” del mondo, soprattutto del mondo accademico, e sulla retorica del potere.
Mascha non è mordace come Ringelnatz o Tucholsky, ma è profondamente, liricamente, sincera e diretta con se stessa e con il lettore. La leggi e ti senti accanto a lei. E anche questo appartiene al cabaret.

Già il vento va scuotendo il fienile.
Nel buio una piccola civetta chiama.
Sto seduta davanti al mio bicchiere,
così il tempo dell’anno si consuma…

Nell’osteria si smorza una candela.
Un attardato suona il pianoforte.
– Di tremore anche il cuore gli si vela,
adagio in bemolle – così come a te.

Mascha, seguendo rigorosamente il “dettato” del cabaret – poetare in versi rimati – rischierebbe l’espressione di uso corrente, le rime di tradizione romantica in -ein  e -ern e la saggezza popolare delle frasi fatte. E invece lei segue un ductus discorsivo che non è mai banale, come dimostra la spigliatezza dell’Amore nella metropoli:

Ci si conosce chissà dove di sfuggita
e ci si dà chissà quando appuntamento.
Chissà cosa – una cosa indefinita –
ci convince a non lasciarsi mai più.
Al secondo gelato già ci diamo del tu.

Ma non è solo la tematica cittadina che la intriga e l’affascina. C’è anche lo struggimento lirico per l’addio a un luogo amato:

Nel nido degli uccelli un fremito si desta.
E dai salici pendono gli amenti di velluto.
Tutta la natura si prepara alla festa
– Il mio cuore si prepara all’ultimo saluto.

L’ultimo passeggio di sera sul viale:
le campane spettrali hanno rintoccato!
Un tardo uccello grida: “Vale, vale.”
Prima d’ora non l’avevo mai notato.

È questo un dialogo complesso, di contrappunto con la natura, un dialogo niente affatto scontato, quasi che dentro a ogni suono si celi un amaro monito che si scopre ad un tratto: l’uccello attardato che grida il suo addio usando il termine latino, tale un sacerdote che celebra la messa per un morto, mentre nel sottofondo si odono rintocchi di campane dal suono spettrale. E la natura si adorna di amenti di velluto per la festa, mentre di contro il cuore di Mascha si prepara all’addio. Lei non vi potrà partecipare.

I compiti del traduttore
Se un traduttore si accosta ai testi poetici della Kaléko non deve dimenticare quello che lei stessa scrisse in una sua poesia su Giano bifronte che costituisce la chiave di lettura del suo lirismo satirico:

Quasi ein „Januskript“

Wie ein Janus zeigt zuweilen mein Gedicht
Seines Verfassers doppeltes Gesicht:
Die eine Hälfte des Gedichts ist lyrisch,
Die andere hingegen fast satirisch.

Quasi un Giano bifronte

Come Giano talvolta il mio poetare
rivela il doppio volto dell’autore:
una metà di questo volto è lirica
e l’altra invece è piuttosto satirica.

Ora questa chiave di lettura dovrebbe regolare sia la scelta lessicale, sia l’andamento sintattico della poesia di Mascha, mentre l’opzione del verso rimato dovrebbe garantire a sua volta l’aspetto cabarettistico-cantabile dei suoi componimenti poetici.
Un compito questo che nelle rare traduzioni in italiano di singoli componimenti poetici non viene rispettato forse nella convinzione che quegli elementi facciano parte di un veccchio modo di poetare.
Ora, io non penso che la Kaléko non sia stata capace di scrivere senza rima, attardandosi su moduli poetici obsoleti. Penso piuttosto che la conservazione dell’armamentario poetico tradizionale rientri  nell’ aspetto ironico-satirico del suo stile.

* * *

Memento

Vor meinem eigenen Tod ist mir nicht bang,
Nur vor dem Tod derer, die mir nah sind.
Wie soll ich leben, wenn sie nicht mehr
.                                                           [da sind?

Allein im Nebel tast ich todentlang
Und lass mich willig in das Dunkel treiben.
Das Gehen schmerzt nicht halb so wie
.                                                    [das Bleiben.
Der weiß es wohl, dem gleiches widerfuhr;

– Und die es trugen, mögen mir vergeben.
Bedenkt: den eigenen Tod, den stirbt
.                                                         [man nur,
Doch mit dem Tod der anderen muss
.                                                     [man leben.

Memento

Della mia morte io non ho timore,
sol della morte di chi mi è vicino.
Come vivrò, se quelli non ci sono?

Nel buio a tentoni mi lascio trainare
sola nella foschia lungo la morte.
Andarsene è meno duro che restare,
ben lo sa chi ha vissuto questa sorte

– e chi la visse mi voglia perdonare.
Pensa: uno muore e via con la sua morte,
ma con quella degli altri ha da campare.

 


 


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