In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
A cosa aspira, in generale, la poesia? Le risposte sono molteplici, forse tante per quanti poeti si sono arrischiati a definirne una finalità o una validità. Ma nella definizione della poesia da parte del poeta non troviamo distanza, una ontologia, al contrario c’è spesso un corpo a corpo che il poeta stabilisce sia con la materia oggetto di ispirazione sia con la sostanza plastica e linguistica del «poiein». Per chi conosce André Frénaud non vi sono dubbi riguardo la poetica: essa resta nella zona di una metafisica non trascendente, è sguardo proteso alla terra, limite entro cui lotta l’indicibile e la fede nel linguaggio; è un poetare dalla parola angosciata perché il suo potere non guadagna l’assoluto, bensì l’effimero. Sembra, pertanto, tenere più le parti al filosofo Kierkegaard che quelle di Hegel o anche di Unamuno. Il suo è un esistenzialismo che nega l’aspirazione al paradiso, alla musicalità celeste. La poesia si mostra, nella contemporaneità, «macchina inutile», congegno tuttavia importante «per captar quel silenzio/ e mettervene un po’ nell’orecchio/ con gran colpi d’ala inutili», ospita una parola silenziosa – lo stesso silenzio cui è stata riportata la poetica di René Char –, un muto sentire che non guadagna le stelle, ma il gesto minimalista di una mezza definizione, un soffio appena. Invece Dylan Thomas, poeta al quale Frénaud dedica i versi della poesia Non c’è paradiso da cui prende il titolo omonimo della raccolta, poeta gallese dalla parola selvaggia, parola-lievito d’idee visionarie, può, secondo Frénaud, aspirare a tale musica perché possiede un dettato che impenna, contrariamente al suo stile la cui fedeltà risiede, non senza ironia, nel «bisbiglìo del poema», scrittura che si sporca con la terrestrità, l’al di qua che possiede tratti non meno appassionanti della dimensione spirituale, dimensione perduta. In ogni caso, non bisogna credere alla sola prospettiva della poesia che non riesce a dire o preferisce fermarsi a un passo dalla rivelazione, poiché la riflessione di Frénaud esprime un’ipotesi sul dopo se paragonato all’immedesimazione, al partecipare ai sentimenti di certe figure («I Re Magi») e nelle ripetizioni di gesti che formano il vivere («Casa da vendere») o persino un rituale, quello di esistere al mondo, un esistere contratto come debito dalla nascita e la cui parificazione (o purificazione) si risolve, nel dare e nell’avere, a quota zero («Quando aggiusterò il mio puffo/ col nulla, uno di questi giorni,/ lui non mi riderà sul grugno»), per cui ormai non vi sono debiti o crediti da saldare. Scrivere aspira all’ignoto che prende continuamente forma diversa nel cammino poetico. Pertanto, è nel linguaggio, edificato come da un terrazzatore, il luogo della discussione, dove il poeta-filosofo è anche «radioso prigioniero» in un linguaggio-dimora dove egli distingue la sua voce, gli echi di un sapere vissuto, ma se è la sua, è anche dell’altro («È la voce dell’altro, sei tu»), voce che, fondendosi nel verso, si fa somiglianza, sentire capace di contemplare miseria e sacralizzazione (Marianne Froye). E forse, proprio per questo sentire, la poesia guadagna la sacralità che, a un passo dall’ignoto, anticipa il pensiero degli uomini e si fa altezza terrestre, aspirazione al dire che, a momenti, narra l’interferenza col cielo per preferire, poi, le viscere dei suoi stati d’animo.
Bibliografia in bustina
A. Frénaud, Il silenzio di Genova e altre poesie (trad. G. Caproni), Torino, Einaudi, 1967.
A. Frénaud, Non c’è paradiso (trad. G. Caproni), Milano, Rizzoli, 1971.
G. Caproni, Quaderno di traduzioni (a cura di E. Testa), Torino, Einaudi, 1998.
M. Froye, «André Frénaud face aux mots: entre misère et sacralisation», dans Interférences littéraires, nouvelle série, n° 4, « Indicible et littérarité », s. dir. Lauriane Sable, mai 2010, pp. 199-208.