Gesualdo Bufalino, da Le menzogne della notte
VIII. Del camminare sui tetti
Il maltempo s’era sfogato. Come trinciata in mille pezzi dai fendenti d’una sciabola immensa, la cappa di nuvole nere lasciava fra un ritaglio e l’altro qui una stella lì un’altra rinascere; e un’afa cresceva, mescendosi alla succosa umidità della terra. Un ultimo tuono, ma senza veemenza, simile al ringhio di un molosso sazio, s’udì perdersi al largo, dove il mare e il cielo facevano un solo antemurale di tenebra.
Notte fonda, dovunque e ancora. Ma che ora fosse non si capiva, s’era perso il secondo dei cambi di sentinella, avvenuto certamente nel frattempo, sebbene del tutto inaudito fra il fracasso della tempesta.
Il barone si preoccupò: “Non sarò andato fuori dei termini?” chiese. Ma Agesilao, levando in su gli occhi, da un suo oroscopo aereo concluse essere appena passata l’una di notte. Ch’era poi l’intervallo previsto perché gli aguzzini già prendessero un po’ di riposo per asciugarsi i panni ad un fuoco, indi tornare a ribadire con chiodi definitivi il patibolo.
Se ne ebbe presto conferma dai nuovi rumori che salivano dal cortile: non più martelli suonare, difatti, ma una voce indistinta discorrere una cosa buffa in circolo, alla quale risa grandi s’accompagnavano, irosamente interrotte da uno sbattere d’imposte nel quartiere degli ufficiali.
“Ripensando alla tua storia, barone,” disse il soldato, “mi chiedo se il codice cavalleresco preveda la sospensione d’uno scontro in caso di pioggia battente.”
“Rilievo che importa poco,” fu il parere di Saglimbeni. “In un duello come quello, in cui dei duellanti l’uno voleva ad ogni costo uccidere, l’altro ad ogni costo morire.” E qui cominciarono tutti a dibattere su Secondino e il barone, e la loro consustanzialità misteriosa.
“A me” disse il frate, “Se m’è concesso chiosare religiosamente la cosa, a me pare che i due gemelli, così confusi tra loro, facessero insieme un Sacro Ambo o Santissima Duità, alla quale, se aggiungiamo il Padreterno, ecco una Trinità liberale, di quelle che mandano in estasi gli adolescenti, con morte e passione del Figlio, in riscatto del genere umano, sotto la piogga a Vincennes…”
Il barone si rabbuiò: “Codeste son freddure che mi disturbano,” disse, “né riesco a seguire le tue giravolte fra sacrilegio e pietà.”
“Se mi gabello per frate,” disse frate Cirillo, “non è per dileggio ma per fallito amore dell’abito. Io di Dio sono fedelissimo, sebbene spesso in silenzio gli chieda conto del mondo e delle sue imperfette ragioni. Or tuttavia stanotte, mentre m’accingo a vederlo e a parlargli più da vicino, non so trattenere in me una vena acida, una stridula nota, uno screzio: come quando si gratta il vetro col dito oppure una seta d’ombrello ci sfiora i capelli e i nervi se ne lamentano…”
“Capisco,” disse il barone. “Capisco anche che il mio racconto possa esserti parso incredibile o risibile affatto. Mentre è vero il contrario.”
“Risibile, forse,” disse Cirillo. “Incredibile, no. Solo non ho ben compreso se in codesta avventura tu sia stato Giacobbe o Esaù…”
D’improvviso si vide lo studente inginocchiarsi: “Qui tutti vi state scordando la sola cosa che conta: quella bussoletta sul tavolo dove dovremo fra breve introdurre la nostra vita o la nostra morte. Poiché è stata un’astuzia del diavolo d’aver lasciato questa candela che brucia a consumarsi nelle nostre mani. Per giunta i nostri discorsi, da cui speravo aiuto, stan sortendo l’effetto contrario. Tu poi, barone, che mi parevi così compatto e sicuro! E ti scopro ora sostituto d’un altro e quasi suo fantasma fra noi. Ma dimezzato o intero che tu sia, mi rafforzi il dubbio se io stia vivendo una favola o morendo una morte da libri di storia. Insomma,” e si mise a piangere, “ditemi che devo fare, giustificate questa immolazione o ridatemi alla mia gioventù, ai brindisi sotto la pergola, alle musiche, ai baci; lasciatemi vivo…”
“Il tuo spavento,” disse il barone, “è come d’uno che cammina su una grondaia e trema all’idea della possibilità di caderne. È un’idea che atterrisce, se congiunta all’idea d’una grande altezza, mentre nessuno teme di passeggiare su un esiguo muretto alto un metro, benché nei due casi la facilità di cadere sia uguale. Così tu vedi, assuefatti dall’esercizio o sicuri per ignoranza, marinai, muratori e sonnambuli pianamente salvarsi, là dove l’uomo cosciente precipita.”
“Ma io, ma noi,” disse il ragazzo, “non soltanto guardiamo l’abisso, ma siamo certi di doverci cadere fra breve. Con una spina nel cuore: che, volendo, potremmo fuggirlo.”
Saglimbeni gli pose sulle spalle le mani: “Sst!” fece. “Tireremo le fila alla fine. Quanto alla tua confessione, barone, Narciso dice bene, che non ci aiuta a decidere. Non solo: ma elude la questione più grave, attorno alla quale sinora abbiamo tutti girato da quando siamo in prigione, senza osare mai nominarla, ma nascondendola dietro palliative parole. Dico dei morti innocenti che lo scoppio della macchina infernale produsse senza scalfire il tiranno; dico degli altri che la prossima macchina produrrà…”
“O non ho detto prima che il sangue dei martiri serve?” disse sottovoce il barone.
“Dei martiri volontari, sia pure; non degli involontari ed ignari.”
“E io?” interruppe Narciso. “Io che non voglio essere né un martire né uno spione?”
Gli rispose dal cortile un rumore: scalpiccio di piedi, brevi motti, scatti di baionette inastate.
“Orsù, l’intervallo è scaduto,” fece Agesilao, tendendo l’orecchio. “E il mio racconto è forse il più lungo.”
Quindi, senza aspettare l’assenso: “Il mio racconto s’intitola Il guazzabuglio.”
© Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte. Introduzione e note di Nunzio Zago. Cronologia e Bibliografia di Francesca Caputo, 1988/2016 Bompiani/Rizzoli, pp. 73-75