Jacopo Pellegrini, In risposta al silenzio
Transeuropa, 2019
Ci si dispone, nell’attesa, al silenzio; e questo può anche significare che ci si mette in ascolto del mondo, della vita, della propria esistenza. Questo è il sunto, se si vuole, di In risposta al silenzio di Jacopo Pellegrini, raccolta di poesie che inconsapevolmente disegnava alla sua uscita, sul finire del 2019, la condizione attuale impostasi in queste settimane di isolamento emotivo prima ancora che inter-relazionale. Queste poesie ci conducono per mano tra le premesse a questa caduta («La polpa del discorso è digerita/ in una ferita che si trascura»; Legge la legge (discorso), p. 19). Al baccano, al continuo vociare di fuori («Ogni giorno mi sento/ travolto da volti ignoti/ e violenti, dal parlare stravolto,/ a me che conosco il piacere della parola,/ e covo l’inespresso desiderio/ di un silenzio profondo»; Il manager, p. 10), come pure all’altrettanto baccano e cinguettare dell’universo incorporeo dei social – un’indifferente socialità fatta di «persone indifferenti/ con cellulari accesi e volti spenti» (Su un lembo di specchio straniero, p. 26) –, Pellegrini – non unico in ciò – indica la via del silenzio e dell’ascolto, nell’attesa di offrire una vera risposta.
A quale domanda? Ecco il punto! Non c’è una vera, un’unica domanda posta in chiaro; ci sono bensì varie domande, alcune retoriche, disseminate nelle poesie. Soprattutto c’è una domanda non posta alla quale la seconda sezione, Giuseppe, sembra volere rispondere: si accetta, in silenzio, il destino. Non è una dichiarazione di resa, sia chiaro questo! È una disposizione dell’animo all’umiltà e quindi al silenzio. E il Giuseppe («un piccolo nome nei titoli/ di coda»; La nascita, p. 33) protagonista di questa parte del libro è il consorte predestinato di Maria («la star del grande schermo»; ivi), madre di Gesù; è l’uomo meno considerato dalla storia narrata nei Vangeli sinottici, relegato a figurina nello sfondo della grande storia, il cui nome torna pure nella parte finale dell’esistenza terrena del figlio ma che appartiene a un altro uomo. Un uomo la cui paternità è subalterna a ben altra paternità. Ma è l’uomo reale, comune, sensibile: l’unico uomo in cui tutti gli uomini reali potrebbero (e possono) riconoscersi almeno in parte; soprattutto in quella richiesta di ribellione inascoltata («Coraggio, fai nascere/ la mia ribellione»; ivi). Si tratta di una condizione di prigionia reale questa portata in scena da Giuseppe, e sintomaticamente essa prende corpo nell’unico sonetto dell’intera raccolta (La bottega di Giuseppe, p. 36): un metro chiuso per una situazione altrettanto chiusa, senza possibilità di uscita perché non prevista dal plot. Ma è qui che l’individuo si abbandona al «pianto muto» che «bagnerà la croce» (ivi).
Non è dato sapere quali letture abbiano supportato questa lettura di Giuseppe; su quali basi poggi una visione così umana. Forse in filigrana si potrà riconoscere una qualche vicinanza a In nome della madre di Erri de Luca. Di sicuro, non si dovrà mai tenere separata dalla scrittura anche l’area di origine di un autore; e il bellunese (come pure il veronese) è territorio intriso di una precisa cultura cristiana, sicché ciò che pare rinviare a La lettera a Giuseppe di don Tonino Bello (Antonio Bello, La carezza di Dio. Lettera a Giuseppe, La Meridiana, 1997) può essere una pura suggestione, sapendo che l’autore può avere accolto in sé molteplici e difficilmente identificabili suggestioni, figlie di una mutuazione indiretta, che lo hanno portato a questa immagine pienamente laica di Giuseppe. Ma quella lettera di don Bello diede vita a un interessante progetto poetico: l’antologia La versione di Giuseppe (Edizioni Accademia/Neobar, 2011; qui la lettura di Anna Maria Curci). Ed è in questa coincidenza inattesa che riconosco i segni di un percorso meditato e rigoroso, non sempre sorretto da altrettanto rigore poetico.
Il passaggio da questa sezione alla successiva Il mio sereno anonimato, terza e ultima della raccolta, è un passaggio naturale: qui ora è il figlio che parla al padre (e si badi che “Padre” è la prima tra le parole/figure che incontriamo nella lettura). Si compie la circolarità della raccolta; si compie il disegno di questo invito all’ascolto del silenzio. Si compie la specularità: I desideri di un padre, che chiude Giuseppe, si riflette ora in A mio padre, prima poesia della sezione; le forme al condizionale che caratterizzano il primo dei due componimenti, si ripresentano e si rispecchiano nel secondo anche innanzi alle palesi antitesi, volute e ricercate antitesi («Forse il senso/ del cammino insieme/ è il tragitto tentato/ nell’avvicinarsi,/ e non nella meta/ mancata»; A mio padre, p. 41). Una raccolta fatta perciò anche di contrasti, che tenta di bilanciare le forze, cerca un dialogo tra le stesse. Cerca di dare voce per ossimoro al silenzio di chi resta chiuso in un “sereno anonimato”; perché nessuno ha imposto la continua esposizione di ogni aspetto del vivere all’uomo. Quanto Caproni in tutto questo letto e riletto e assunto in dosi continue da iniettare nella propria poesia del silenzio. E così In risposta al silenzio, questo silenzio infido disceso nelle vite di tutti ora, si propone come una delle letture più proficue per mettersi in ascolto dell’uomo stesso.
Jacopo Pellegrini è nato a Belluno nel 1981. Ha pubblicato la raccolta poetica Traslucido (Edizioni del Leone, 2007). Alcuni testi della presente raccolta sono apparsi in rivista («Nuova Ciminiera» e «Il Foglio Clandestino», nr. 84/85) e in rete («L’altrove. Appunti di poesia», qui).
Una replica a “Jacopo Pellegrini, In risposta al silenzio”
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