Piera Mattei, L’infinito dei verbi
Manni Editori 2019
Nota di Alessandro Romanello
Questa nuova raccolta poetica di Piera Mattei (editrice, poetessa, traduttrice) si compone di sette sezioni e di un’appendice. I titoli delle sezioni (I verbi all’infinito, Io, ha senso?, Scrivendone s’attenua, Il suono delle parole, La curva dell’oblio, La natura in sé, Lo spazio) indicano già l’ampio spettro tematico della raccolta, che declina le modalità del rapporto io-mondo e della sofferta interazione tra le parole e le cose. La prima sezione, I verbi all’infinito, che si ricollega in modo speculare al titolo della raccolta, si sofferma sulla distanza tra le potenzialità del verbo, nel suo dispiegarsi all’infinito, in funzione imperativa e ordinativa, e la resistenza del mondo e degli oggetti all’ordine imposto dal linguaggio. Si legga questa memorabile quartina, compresa nel sonetto L’autonomia degli oggetti: «Piccoli gesti nello spazio concluso/ quelli solo puoi compiere/ provare inutilmente a riordinare gli oggetti nella casa».
La seconda sezione, Io, ha senso?, si interroga con acume sui limiti costitutivi ed epistemologici dell’io poetico, dell’individuazione strenua associata, dal romanticismo in poi, alla poesia lirica. Si tratta di un problema ancora apertissimo, dalle implicazioni pressoché infinite, che determina lo statuto medesimo della poesia moderna e contemporanea; «non penso che girando per la casa/ cambierò la realtà dell’universo», scrive Piera, per poi aggiungere: «e mentre penso il movimento/ mi chiedo/ […] IO, l’orgogliosa pretesa,/ cosa significa?» Con un moto vertiginoso, di una verticalità pascaliana, Piera sa ricondurre le questioni ultime alla quotidianità e all’intimità di una casa (e questi temi ritorneranno, come vedremo, nella sezione del volume dedicata allo spazio).
La terza sezione, Scrivendone s’attenua, mostra come solo il linguaggio, pur coi i limiti di cui si è già detto, possa rendere possibile e sopportabile l’urto con l’esistenza, con il nostro essere nel mondo. Piera sottolinea infatti «il fastidio che ti procura chi non parla la tua stessa lingua» e esprime nostalgia «d’incontri con sguardi di animali/ che siano eccezionali/ che non siano di parassiti abitatori»: l’inautentico e la “chiacchiera” heideggeriana vengono rifiutati in blocco in quanto crimini contro il linguaggio.
La quarta sezione, Il suono delle parole, si concentra invece sul contrasto tra lo charme, per dirla con Valéry, delle parole (situato tra suono ed etimo, tra significato e significante) e il mondo delle attività pratiche, quindi ancora sui limiti del soggettivismo di origine romantica contrapposto all’oggettività del linguaggio e alla durezza delle cose. Esemplari, in questo senso, le prime due strofe delle Meditazioni culinarie: «I gesti/ della meditazione culinaria/ – mondare le zucchine/ ridurne la polpa in dischi/ di uguale spessore/ nel mentre/ far andare il pensiero/ alle mani/ renderlo manovale/ ma le parole/ le senti?/ non si sono lasciate/ allontanare/ – sono rimaste/ vogliono occupare il pensiero/ non seguono il lavoro delle mani». Ancora una volta, Piera sa mirabilmente tradurre ciò che è supremo nel sermo humilis della quotidianità (da notare altresì, in questo senso, il basso tasso di figuralità dei suoi versi e il lessico per lo più colloquiale).
La quinta sezione, La curva dell’oblio, gioca sui poli contrapposti della scienza, della misurabilità dei fenomeni e della memoria poetica per come ci è stata tramandata dalla tradizione, con la sua topica e i suoi sviluppi a volte prevedibili proprio perché resi canonici. In questa parte del libro si trova il testo per me più riuscito della raccolta, che voglio citare per intero:
E le cose perdute
considerale perdute (nell’eco di Catullo)
Non parlo qui di amore, no
di amore parlo poco, anzi non parlo mai
ascolto gli altri parlarne
quasi con meraviglia
anche delle persone che ho perduto
tutte insostituibili
anche di quelle non mi dispero più
se ne conservo il distinto ricordo
No
la miseria invincibile che sento
che m’inquieta
viene da altri motivi, da altro tempo
viene da prima ancora…
la fisso ai sette anni, dicono l’età della ragione
Già da allora c’erano tazze
che lasciavo cadere
mentre orgogliosa immobile
contemplavo il disastro
chiusa in piccola sfida
contemplativa immobile
sempre aspettando
che fosse l’occasione a cercarmi
a muoversi
lei verso di me
“vedremo ci sarà ancora tempo
tempo non mancherà verrà l’occasione più adatta…”
tutto quel repertorio del quale tu sei stata
un’esecutrice davvero straordinaria
il repertorio del rinvio ad altro tempo
il repertorio del lento rifiuto.
Muovendo da un celebre luogo catulliano («Et quod vides perisse perditum ducas»), Piera rinuncia alla poesia d’amore e di memoria della tradizione lirica ed elegiaca per consegnarci uno spietato, straordinario autoritratto. Alcuni versi, pur vigilatissimi, sono di un’intensità e di una compressione emotiva quasi insostenibili: «Già da allora c’erano tazze/ che lasciavo cadere/ mentre orgogliosa immobile/ contemplavo il disastro/ chiusa in piccola sfida». Nell’ultimo bellissimo settenario, in quella terribile «piccola sfida» (e non, si badi bene, “sfida piccola”), è riposto il nucleo “duro” della poesia di Piera, che non teme né l’oblio né la perdita né tanto meno le défaillances dell’io lirico tradizionale ma ne trae piuttosto un paradossale vantaggio.
La sesta parte, La natura in sé, riprende il tema illuministico e leopardiano dell’indifferenza della natura nei confronti delle umane cose. Ancora una volta Piera ci dona versi memorabili: «La pianta di cui non so il nome/ intelligente e imperialista/ in orizzontale si è spinta/quindi risalendo in verticale/ ha saputo come occupare/ l’intera superficie/del piccolo terrazzo». Non credo che nessun poeta in lingua italiana abbia mai definito una pianta “imperialista”: questo tocco di humour rientra perfettamente, come si è visto, nella poetica di Piera, che sa far dialogare il cosmo e la micrologia della vita quotidiana con irridente disinvoltura.
La settima e ultima parte, Lo spazio, indaga quell’a priori kantiano che «afferma/ futile l’orgoglio/ e la coscienza dei viventi», «indifferente alla vita che ospita e consuma». Ancora una volta si avvertono distinti echi leopardiani. L’ultima sezione infine, Tra le sparse, costituisce un’appendice e contiene alcune poesie (per lo più legate a viaggi e a incontri) scritte tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo scorso, che non erano state inserite nelle raccolte precedenti di Piera ma che non di meno si accordano con la Stimmung disincantata di questa silloge. Notevolissima, tra queste ultime, Fantasia: «Un bar a donne./ Si consumano dolci, vibrano colori./ Non che le donne tutte siano generi/ di conforto, ne ho conosciute grandi/ fasciate di nero/ dee/ che salvano o perdono». Qui, in un’atmosfera un po’ espressionista, tra la pittura dei Fauves e Dino Campana, sentiamo comunque la voce autentica di Piera, rimaste intatte la sua ironia e la sua strenua capacità di osservazione.
In conclusione, questa raccolta di Piera Mattei si distingue per originalità e acume sottile. A partire dalla dissezione del nucleo più profondo del dire poetico, l’io qui indagato e sottoposto a processo, Piera indaga, con i mezzi della poesia, il rapporto tra il linguaggio e il mondo delle cose e lo fa con versi di fulminante arguzia: «… nel declinare dei tempi della luce/ si preparano vertiginose/ ruote d’eventi/ di colpo/ si svuotano le menti/ ai morti». L’infinito dei verbi coincide in fondo con l’inesauribilità della ricerca poetica.
© Alessandro Romanello
L’autonomia degli oggetti
Piccoli gesti nello spazio concluso
quelli solo puoi compiere
provare inutilmente
a riordinare gli oggetti nella casa
Appena li riponi
gli oggetti sfuggono via dalle tue mani
verso quel caos dal quale vengono
e al quale vogliono far ritorno
Soprattutto non intendono
significare “per te”
vogliono essere “per loro” stessi
e domani nelle mani di chi tu non conosci
non sono regali che tu farai
ma appropriazioni che il tempo ha predisposto
Del dividere in fette il tempo
Non prendere tutto intero il tuo tempo tra le mani
come se fosse un filone intero di pane
prendi un coltello
affettalo
ogni fetta è quanto potrai oggi consumare
ogni fetta è una frazione completa
dell’intero tuo tempo
Anch’io
L’estremo sforzo di sentirmi
presente nell’infinito spazio
riduce lo spessore alle mie ossa
le rende fragili, quasi umide
ed esposte alla ruggine
nella coscienza del vortice
che non me sola sospinge
– quietamente
trovo anch’io un movimento rotatorio
un movimento adatto
alle dimensioni del mio microcosmo
mi giro intorno
non ho però l’ambizione d’interferire con movimenti cosmici
non penso che girando per la casa
cambierò la realtà dell’universo
mi riferisco alla Galassia
quell’universo che non so
che non provo neppure a misurare
che dovrei però sapere quanto minuscolo sia
rispetto all’ALTRO
tutto quell’ALTRO che indubitabilmente esiste
e tuttavia non vedo
non posso vedere
neppure nelle notti di luna nuova
compulsando il cielo
E mentre penso il movimento
mi chiedo
usare il pronome personale di prima persona
iniziare una frase con quell’IO
ha senso?
IO, l’orgogliosa pretesa,
cosa significa ?
Analisi cliniche
Numeri, percentuali
provano a stabilire la misura
del tempo che rimane
Tragedie più grandi, lo sai,
accadono non lontano da qui
affogamenti distruzioni terremoti e stragi
ma li guardi questi giovani africani
hanno corpi atletici, sorrisi candidi
non gli eritrei che a gruppi di tre di cinque
– due di loro abbracciati– scendono alle fermate
di Piazza Indipendenza
di via Palestro
ma gli altri quei giganti
vestiti di colori sgargianti
alcuni in postazioni fisse a vendere
i bracciali di corno
le collane di murrine
di fronte a san Carlo ai Catinari
– quasi ne provi invidia
e con loro quei figli
belli come la notte
che giocano a rincorrersi
tra moto parcheggiate
e il cauto avanzare d’automobili
Non che della loro presenza
io più non riesca
a provare commossa meraviglia
però s’è fatto tardi
s’è fatto piccolo il mondo
e l’aria è così impregnata di respiri
da somigliare a un acquario
dove pesci boccheggiano
e chi vorrebbe adesso
come le balene, come i delfini
mutare gambe e braccia
in pinne natatorie?
Ora la poesia si sparge lenta e assorta
come se non fosse più possibile
che dalla sorgente si formi il fiume
l’acqua si sparge
s’impaluda
noi siamo là dentro
in quell’acqua che pigramente
vive e si trasforma
Piera Mattei dopo una laurea in filosofia, studi e realizzazioni nel campo del teatro e del cinema, e una collaborazione decennale alle pagine culturali di testate nazionali (Paese sera, Quotidiano dei Lavoratori, Quotidiano Donna) e riviste culturali, dal 1991 al 2013 è stata nella redazione della rivista di poesia internazionale Pagine, per la quale si è occupata soprattutto di critica letteraria e di traduzione di poeti stranieri.
Nel 2010 ha fondato le edizioni Gattomerlino delle quali è la responsabile editoriale, firmando anche all’interno della sua casa editrice, introduzioni, traduzioni, curatele.
Negli ultimi venti anni ha pubblicato raccolte di poesie –”L’infinito dei verbi” è la sesta – raccolte di racconti, libri per l’infanzia, testi di critica letteraria, e numerose curatele. Ha firmato molte traduzioni di prosa e di poesia, in particolare di poeti contemporanei d’Europa e d’America e di classici degli ultimi secoli.
Come poeta e narratrice è presente in numerose antologie ed è tradotta in molte lingue: inglese, francese, spagnolo, russo, turco, estone.