Nazim Comunale, Chiamala febbre. Fotografie di Alessandra Calò.
Edizioni San Lorenzo
Ho avuto il privilegio di leggere in anteprima – e prima ancora della dichiarazione dello stato di emergenza; precisazione, questa, che intende sgombrare il campo da equivoci circa la genesi di questa raccolta – Chiamala febbre di Nazim Comunale. Man mano che ne scorrevo le pagine, andavo appuntando osservazioni, spunti di riflessione e articolate tessiture di richiami letterari. Un’affermazione in un testo è stata la mia guida nel viaggio in anteprima tra i versi di Chiamala febbre: pancia e quaderno aspettano, reclamano a gran voce di essere riempiti.
Se è vero che pancia e quaderno aspettano di essere riempiti, è vero altresì che la sazietà non è mai raggiunta, che prosegue, con l’acume di chi vive e scrive, l’osservazione e la partecipazione, se pur critica, al tentativo di colmare un vuoto: la vacuità di questa fine del mondo in piccole dosi quotidiane che riceviamo, veleno e farmaco. La sazietà non è raggiunta perché, felicemente, la raccolta di Nazim Comunale colma e, allo stesso tempo, rinnova la sete nelle due istanze che trovo fondamentali nella poesia: slancio e rigore. Slancio e rigore che Nazim tende in avanti e rende, quindi, dinamico fare poetico, con una percezione acuta, e una altrettanto acuta, perfino febbrile, “disastrografia”, che non dimentica, nei viaggi molteplici verso le periferie, verso gli estremi, due direzioni dell’impegno: quella verso i maestri, nominati non solo nelle epigrafi, bensì, anche, filo robusto che attraversa l’originale tessitura del dire poetico, e quella verso la propria professione, nel caso di Nazim la professione di maestro nella scuola primaria.
Lo slancio è lo slancio dello sguardo che taglia, che scava, che anticipa, lo slancio della constatazione, della rilevazione della temperatura (febbre!), della percezione del fuoco: ed ecco il mio primo richiamo letterario: Johanna, il romanzo di Felicitas Hoppe, con le sue variazioni sul tema del fuoco, dal rogo al bivacco, dal bivacco al rogo.
La constatazione si fa, indignata in misura sacrosanta, constatazione del reale, per comprenderlo in una dimensione universale, e dunque politica, squisitamente e autenticamente politica, anche quando racconta di un viaggio in pullmann lungo la Basilicata o del sogno prima del risveglio scarabeo di Kafka a Mosso Sao Paolo, Bahia.
Lo slancio è, ancora – filo di Paul Celan nella tessitura della poesia di Nazim Comunale –, il canto “oltre la spina” (Celan, Salmo), ma è anche, con Ingeborg Bachmann, “il canto oltre la polvere” (Bachmann, Canti lungo la fuga, XV).
Il rigore è il rigore del principio di realtà che dà una misura, la cerca, la impone al brodo che sdogana tutto, alla sofisticazione obnubilante, alle revisioni menzognere: esemplare è al proposito Io sarò sempre con voi. Il rigore è la precisione del dettato, la freccia scoccata dalla parola e dalla forma, di volta in volta sorprendentemente mirata, che sia un esercizio Dada oppure il richiamo a Pascoli in Logos (“pigolio di luce”), che sia una convincente ripresa del topos della nave in viaggio (“nave con vele nere”, Petrarca, Heine, Carducci) in My ship o, ancora, una versione, tutta nella cifra della scrittura “chiara” di Nazim Comunale, di Piaceri di Bertolt Brecht e di Inventario di Günter Eich («piccolo inventario»); che sia, infine, una sorprendente e inaspettata consonanza, attraverso il tema duplice della medusa e degli spettri, con la poetica di Marion Poschmann.
Anna Maria Curci
Dalla sezione Minuscoli prototipi di paura
Dichiarazione
Prendo atto
che la mia vita oggi è un fascio di fradicie sterpi
e le vespe ci fan nido
che la mia vita è tasche sfondate, letti sfatti
giorni dal respiro troppo corto
o smagato.
Prendo atto
che il dolore passa
dalle dita ai denti
dai denti alla lingua
con identico, elettrico furore.
Ti scorgo nella nebbia
e non mi vedi.
La morte, la morte
comincia dai piedi.
Per il resto vivo qui e male
ragnetto appeso al dire verticale
allago quaderni
metto il pollice nel palato
costeggio la guancia destra della città
e so di non essere atteso
neppure spiato.
Un approccio metodico alla chimica dell’innamoramento:
tranquillità in capsule
e un nascondersi sempre uguale
come cane di carta
ombra, perfetta immagine.
E il corpo?
Solo evocato.
Non so nulla del mio ombelico
e nemmeno di quello di Carlotta.
Perciò celebro la sfiancante inutilità di qualsiasi appunto.
Celebro le pause, gli artigli del caso
la solitudine catalana
le donne vittoriose in bicicletta
l’ombra che sa i secoli della fontana.
Celebro l’odore delle sale d’aspetto
i quaderni strappati
un pettine nella selva
la polvere sugli specchi.
Io però sono altrove:
nella linguistica del disastro
nel pessimismo concavo
nello spiraglio esatto
dove gioia e gloria ora non passano.
Io sto qui
seduto
in attesa di eventi
in attesa di averti.
Rovo traversato a fatica
Un pulsare orizzontale di tempie.
Una piccola febbre al respiro.
Microscopici musei immobili
minuscoli prototipi di paura.
L’era delle caverne
la stanza-cunicolo.
Livido lume
un’esistenza in forma di macchia
ad alveare
sulle pareti giallastre.
Sangue sulla neve
pensato al mattino
andando al lavoro.
La città svestita
un mercoledì qualsiasi.
La fuga della lepre sul bianco.
La goffaggine ciclopica
di chi devasta il nido
nata culla
riposta
nella tana.
Quell’ombra di Sylvia nel bosco accanto alla fontana.
Ulisse fugge dall’isola.
Poi verrà il tempo di Circe
e i compagni, i compagni
saranno tutti maiali.
Gli agguati cocciuti dell’ansia
quelle minuscole trappole
nel centro esatto del petto
e la cospirazione dei demoni del respiro.
Morire di fianco alla spazzatura.
Letteratura?
Dalla sezione Preghiere, postille, pastiglie
Istruzioni per scrivere
Aprire la finestra
dimenticarsi
chiudere gli occhi
tenere stretto nel pugno quello spavento
poi sfiorare con le dita dello sguardo.
Sono solo sogni mancini
fratelli di un’altra risonanza
la polvere che brilla al buio somiglia alla vita
ricordi?
Proprio adesso potevi sentire
in punta di palpebra
quell’assenza di parole
l’attimo nitido e il distacco
decollo e deriva
un falso movimento di bassa marea
la luna magnete e l’edera della lingua
che invade il muro della casa.
Non posso dire niente.
Le parole fanno solo ombra.
Dalla sezione Bugie da mammiferi
My ship
In mare aperto
i nodi improvvisi a sciogliersi
barca di giunco alla deriva
appesa alla luce del faro.
La notte coi suoi mercanti
non ha il segreto delle mappe
di un altro deserto blu
e le parole sono i pochi pesci
che abboccano all’inganno
di questo mondo dipinto alla rovescia.
E poi il mattino
a dilagare ombra
a svanire il profilo
di quel faro che scorgevo
solo
in sogno.
Dalla sezione Atlantis (esercizi Dada, invettive, campionamenti)
February Dada
A volte le parole non dette
melograno
sfumano verso l’età adulta
la diaspora.
Una premessa primitiva confusa
del nostro destino di esseri espressivi
non esiste
e mi lascio prendere
da questa epopea in nero.
Il resto è minaccia
oscillazioni del Novecento
nella lingua in cui scrivo.
L’immane oceano dell’oralità
la febbre e l’ossessione
di chi racconta paure
appunti sull’umana dismisura
e un’incredula
perfetta
luce romana.
Play/Rec
Annunci Funebri
Prospero Mango
Biagio Panico
Domenica Scaldafreddi
‘ncopp’o buss
quella con le braccia pelose, al telefono
“avrà pure bevuto, avrà pure stato male”
montagne nude
bibliche
mondo-film
figlio
filo ‘nta sauzicchia
fine.
(sul bus in Basilicata)
Dalla sezione Precolombiana (testi dei vent’anni)
La giovinezza è un’ebbrezza continua: è la febbre della ragione.
FRANÇOIS DE LA ROCHEFOUCAULD
Logos
Continuo l’aprirsi
di remote dissonanze
annidato
tra le pagine
il pigolio
di una luce
immota
Dalla sezione Io non appartengo a nessun luogo
Gli indiani stanno scalzi
gli occhi neri e
lucidi
gusci
di
scarabei
lenti
slacciano le scarpe al tempo
e lui passa
senza che nulla accada
solo un fruscio di scimmia
sulla corda
e un rotondo rotolare di bolo
terra tra le unghie
impastata di saliva e minuti
mentre le madri accudiscono
i piccoli
i giorni
gli elefanti.
(Sul bus notturno tra Chennai e Puttaparthi, India del Sud, gennaio 2012)
Dalla sezione Esercizi per esistere
Aforismi da incubatrice
V.
Riempimi
riempimi
riempimi
mormorano
la pancia,
il quaderno.
Ridere è capovolgere il mondo.
Un maremondo.
Una città fatta di lacrime.
Prospettive azzurre come
l’ipnosi della ventola.
Un’ombra di fuga perenne nella sua voce.
Le stagioni di un minuto.
Magie e sonniferi, bugie da mammiferi.
Cerco una lontananza e non la trovo.
Mi hai fatto domande di cui ho tutte le risposte.
La polvere del disincanto non risparmia nessuno.
La ridda delle occasioni perse.
Le tue ciglia mi spettinano il mare.
Sott’acqua invisibili le mie navi sommerse
a sparire negli abissi del forse.
Anche se zero
anche se soldo di cacio
solo
anche se disastrato
sdrucito
sfinito
strappato.
Stanale
le tue parole stupite
soppesale mentre scuotono le gambette
assopite
sottrai subito al buio dei cunicoli
il sale del tuo dare
la sete del tuo fare
la seta imperfetta del tuo dire.
La didattica della luce
non prevede appello.
Come spettri
o meduse nell’acqua.
Disastrografia: gli errori,
le sviste, le dimenticanze.
E quante cose ancora saprò scordarmi.
Partirò senza lasciare un indirizzo.
A Cordoba c’è una strada che ti dice sparisci
Nazim, sparisci.
Non ci sono appuntamenti,
non ci sono promesse.
Dalla sezione L’uva dei giorni
Unico passeggero sul bus tra Sant’Arsenio e Roscigno
mi dirigo verso Sacco,
il paese della mia famiglia paterna
dove in estate il trasporto pubblico non arriva
perché la montagna è franata anni fa
e non è mai stata messa in sicurezza.
Cristo non si è fermato ad Eboli:
si è dato semplicemente alla clandestinità.
Si nutriva di peperoni cruschi
e parlava un dialetto arcaico
dormendo sotto gli ulivi di queste terre remote.
Da qui il nord è un’apnea diplomatica,
il miraggio di un secolo orfano e grigio.
Un vicolo cieco, un pozzo tutto cupo.
La morte è solo un capitolo di un’epica sussurrata e familiare.
Le ansie cadono a terra
come mele selvatiche.
Siamo solo comparse di un teatro povero
nell’era eterna della controra.
Muti, mitologici
gli ulivi trattengono ancora un brano di stupore
e uno spicchio di cielo.
Napoli è lontana come il Tibet.
“Una strada attraversa il paese. Il paese è quella strada”.
Primo giorno di scuola.
Nell’atrio alle otto
Il tempo sarà
sempre giovane.
I piedi dei bambini
l’inchiostro
le nuvole.
Animali verissimi
così reali da essere inventati.
Fauna di favole.
I vestiti sdruciti
il cuore zoppo dei grandi.
Argilla da impastare
con polvere
con amore
con rime.
I maestri a volte hanno tasche povere.
Ma i piccoli son sarti
calzolai e
basta crederci
se cammini male
possono ripararti la suola.
Puoi dimenticarlo
sai
che poi arriva
la fine.