
Bertolt Brecht, Lirica e logica
«Va bene. ma cosa prova?»
Un matematico, dopo aver assistito all’Ifigenia di Goethe, disse: Va bene, ma cosa prova? Certo la frase era fuor di luogo, ma ci sono migliaia e migliaia di poesie davanti alle quali essa non lo sarebbe. Invitati ad esprimere una critica su tali poesie, ci si trova in imbarazzo perché, per così dire, in esse non c’è niente da criticare, al massimo il fatto che siano state scritte e stampate. Non si può respingere completamente la pretesa del nostro matematico solo perché egli l’ha avanzata nei confronti di un’opera che è in grado di soddisfarla. Gli si può spiegare che cosa dimostra l’Ifigenia e se per qualche altra opera ciò non sarà possibile, vorrà dire che non si tratta di un’opera significativa. Non si tratta di un’opera significativa perché non significa nulla.
La pretesa più elementare è che una poesia trasmetta per contagio al lettore la sua atmosfera emotiva, questo contagio. Questo contagio è un’azione vaga, ancora non molto ben definita, è, direi quasi, di natura formale. La capacità di contagio di una poesia può essere limitata da diversi fattori: luogo, persona, professione, nazionalità, classe sociale. Non è affatto detto che le poesie che riescono a commuovere il maggior numero di persone siano le migliori. Non mi si venga a dire che quelli che canta il popolo sono sempre canti popolari. Ci sono canti popolari che «al popolo» non dicono nulla. Una cosa ci deve essere ben chiara: la capacità di contagiare i lettori la troviamo sia nei generi più elevati di poesia che nei più umili, sia nel canto popolare e nel sonetto che nelle arie da operetta e nelle poesie per i compleanni.
Anche se riesce quindi a contagiare qualcuno, e magari proprio te, una poesia non dimostra ancora un bel niente (io non ti posso quindi dimostrare che dovresti leggerla). A quel che sembra per le poesie è particolarmente difficile dimostrare qualcosa. Supponiamo che al nostro matematico fosse stata messa davanti una poesia che contenesse la dimostrazione del teorema di Pitagora; avrebbe forse affermato che questa poesia dimostra qualcosa? Può darsi, ma può anche darsi che in tal caso noi l’avremmo contraddetto, come l’abbiamo contraddetto quando ha affermato che l’Ifigenia non dimostra un bel niente. E precisamente l’avremmo contraddetto nel caso che la poesia in quanto poesia fosse risultata vuota, priva di fisionomia e priva di alibi. Forse l’avremmo contraddetto anche se il matematico si fosse abbandonato alla commozione.
Da tutto ciò risulterà che non possiamo fare a meno del concetto di bellezza. Aver bisogno di questo concetto non è una vergogna, eppure ci sentiamo a disagio. E questo perché si tratta di un concetto così vago, così legato in apparenza al «gusto» (il quale, «come si sa», è individuale), che «è inutile discuterne».
Se partiamo dalla fisiologia e consideriamo il gusto da un punto di vista fisico, certo è difficile discuterne. Assaporiamo un boccone, storciamo la faccia e diciamo: troppo agro. Allo stesso modo possiamo ripeterci un verso di una poesia e provare un senso di disgusto, come di fronte a qualcosa di scipito, insipido, sgradevole o addirittura nauseabondo. Vero è però che persino nel caso del gusto fisiologico si può arrivare a «prenderci gusto». E ciò può avvenire o mediante una sorta di processo di apprendimento o semplicemente perché le circostanze sono mutate. Il gusto, anche quello fisiologico, può evolversi.
Possiamo prendere un esempio dall’architettura. Nel corso degli ultimi decenni i nostri architetti più progrediti stanno diffondendo lo stile architettonico cosiddetto razionale. Per dirla in due parole, per loro è bello ciò che è pratico. Interessante è ora vedere qual è la reazione degli operai. Infatti essi nell’insieme rifiutano questo stile. Non trovano belle le case squadrate, le chiamano caserme o prigioni e giudicano insulsi i nuovi mobili funzionali. Tutta questa architettura razionale lascia loro in bocca un gusto di insipido. Perché?
Il fatto è che gli architetti, molti dei quali, proprio perché progrediti, amano rivolgersi agli operai in quanto rappresentanti della classe più progredita e più importante, dimenticano poi quale sia per un operaio il significato di una casa. Per lui infatti essa non è solo un rifugio, un meccanismo in cui l’unica cosa che conta è che esso adempia nel modo più pratico tutte le sue mansioni.
Edizione di riferimento: Bertolt Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte. Nota introduttiva di Cesare Cases. Traduzione di Bianca Zagari, Giulio Einaudi editore, Torino 1973, pp. 249-250