In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
In Italia il nome di E.L. Masters e il titolo della sua più celebre raccolta Antologia di Spoon River (ed. orig. 1915) sono indissolubilmente legati alla singolare vicenda editoriale che portò alla pubblicazione grazie, principalmente, all’interesse di Cesare Pavese. Pavese, che scoprì l’opera (si fece procurare il libro dal suo amico italo-americano Antonio Chiuminatto), suggerì a Fernanda Pivano di leggerlo per meglio comprendere la differenza esistente fra la letteratura americana e quella inglese; ella rimase affascinata dalla raccolta, tanto da tradurne una scelta, inizialmente senza farne parola a Pavese poiché imbarazzata. A distanza di anni, l’autore di Lavorare stanca trovò, per un caso fortuito, quelle traduzioni, e dopo aver sfogliato le pagine (e rivolto un benevolo sorriso alla Pivano), andò via col manoscritto. Quindi, grazie all’attenzione dello scrittore e all’intraprendenza di un editore come Einaudi, una raccolta di poesie intitolata Antologia di S. River (la “S” puntata come a indicare una serie di meditazioni di un non meglio identificato San River) riuscì a eludere la censura fascista e fu pubblicata nel 1943; di lì a poco l’opera fu sì sequestrata, ma per «l’immoralità della copertina» che venne subito sostituita. La lettura di questi epitaffi significava, e ancora significa, ascoltare una voce diversa, una sincerità poetica libera da toni alti e solenni; era la scoperta di una «commedia umana» fatta di antieroismo e di una quotidianità fatta di vizi e valori in un villaggio immaginario di una società vitale e spontanea, eppure non meno corrotta. Fu sintomatico che Pavese definì l’antologia – definizione riportata sulla copertina della seconda edizione – «La Divina Commedia del nostro tempo». Poesie dal chiaro andamento narrativo, che hanno «meno del verso, ma più della prosa», riportano la voce di personaggi dai nomi fittizi, ispirati a figure realmente esistite e provenienti dalle due cittadine – Petersburg e Lewistown – da cui Masters trasse il materiale umano per le storie, sebbene si ritenga, a ragione, che sia Lewistown la città eletta giacché il poeta vi trascorse la giovinezza e il fiume che passa da lì è il fiume Spoon, nome scelto per la raccolta. Nella celebre antologia i morti parlano tramite la loro lapide, le parole diventano, per l’appunto, un “fiume” di pathos, disillusioni, amarezze, passioni, ripensamenti: momenti di coscienza. E sono proprio quei momenti di coscienza che fanno presa sul lettore. In questo epitaffio George Gray esprime il suo rimpianto sulle occasioni mai colte; alla sua vita si presentarono amore, dolore e ambizione, ma egli si ritrasse, preferì non seguire quei richiami, restò a terra anziché spiegare le vele. Senso di predestinata sconfitta, arrendevolezza, paura di fare il passo? Del personaggio Gray ci rimane la rinuncia, nonostante la sua ricerca di un senso, che ha reso la sua esistenza come «una barca con vele ammainate, in un porto». Se, però, ci addentriamo nella sua umanità, quel gesto di resa sembra dire, forse, qualcosa di noi. Il confessionalismo post-mortem dei personaggi di Masters ci offre importanti attimi di autenticità che superano il corridoio del tempo, come d’altronde solo la poesia può fare, e che, per dirla con Montale, rendono chiare le cose oscure.