In una poesia – in ogni poesia – si scopre sempre un verso capace di imprimersi nella mente del lettore con particolare singolarità e immediatezza. Pur amando una poesia nella sua totalità, il lettore troverà un verso cui si legherà la sua coscienza e che lo accompagnerà nella memoria; il verso sarà soggettivato e anche quando la percezione della poesia cambierà nel tempo, la memoria del verso ne resterà quasi immutata (o almeno si spera). Pertanto nel nostro contenitore mentale conserviamo tanti versi, estrapolati da poesie lette in precedenza, riportati, con un meccanismo proustiano, alla superficie attraverso un gesto, un profumo, un sapore, contribuendo in tal senso a far emergere il momento epifanico per eccellenza. Perché ispirarsi alle bustine di zucchero? Nei bar è ormai abitudine zuccherare un caffè con le bustine monodose che riportano spesso una citazione. Per un puro atto spontaneo, non si va a pescare la bustina con la citazione che faccia al proprio caso, è innaturale; si preferisce allora fare affidamento all’azzardo per scoprire la ‘frase del giorno’ a noi riservata. Alla stessa maniera, quando alcuni versi risalgono in un balenio alla nostra coscienza, non li prendiamo preventivamente dal cassettino della memoria. Sono loro a riaffiorare, da un punto remoto, nella loro imprevista e spontanea vividezza. (D.Z.)
Nella poesia di Enrico Testa il ricordo, che dà l’avvio al dialogo con gli scomparsi, si accende talvolta attraverso l’osservazione di una pianta o dei fiori. La persona amata che ha coltivato il giardino di casa, mettendo cura e attenzione per anni e con quotidiana puntualità, alla sua dipartita lascia non solo il ricordo – e la cicatrice, non del tutto rimarginata, di un’assenza – ma persino un gesto consueto che ha scandito i momenti, suoi e dei familiari più vicini. Siamo ciò che facciamo, nelle nostre azioni comuni come in quelle più personali. Quando si fa qualcosa, nel suo moto affettivo e deliberato, lo si fa anche per gli altri in quanto quell’abitudine andrà a colmare non solo un tempo soggettivo, ma il passato e il presente di chi è stato accanto alla persona cara; il gesto diventa, allora, risonanza di un vissuto. Sono prove interiori della memoria che, presso il nostro poeta, sono rivelatrici; in Pasqua di neve (2008) leggiamo: «Ma credimi, gioia mia, se ti dico/ che il rampicante cresciuto nel tuo orto/ a lacrime e promesse/ è arrivato oggi sino a Praga!», e nel recente Cairn (2018), come in una lettera, sentiamo una stretta al cuore poiché «le rose di tua madre/ fioriscono a novembre,/ il mese della sua morte». Una fioritura precede di un passo il ricordo e l’evocazione. Il dialogo con i morti è uno dei temi centrali di Testa e fa incontrare, anzi ricomprendere i due mondi – i vivi e i morti, per l’appunto –, tanto da annullarne le differenze poiché della stessa “materia”. I vivi sono fatti della sostanza dei morti, ossia la nostalgia per le «ombre care». I morti sono consustanziali ai vivi, essendo la memoria lo spazio a loro riservato. Nel rapporto presenza-assenza avviene l’incontro, il dialogo silenzioso. La poetica attinge da una riflessione chiara e la parola acquisisce trasparenza; scrivere diventa un’arte della sottrazione, un liberare la poesia dalle scorie, mostrando una parola nuda, anzi ablativa. Lo stile lucido e terso del poeta genovese, è noto, procede «al modo degli indiani», passando cancella le tracce delle maiuscole, a significare un prima impossibile da recuperare, simboleggiato dalla lettera minuscola ad inizio verso, a voler dire che ci troviamo già in medias res nei fatti e nei discorsi della vita, ma senza mettere il punto finale perché il verso continua fuori dal foglio, nella nostra mente e, chissà, nei versi di una qualsiasi altra poesia. Alla stessa maniera di chi ci ha donato il ricordo di un suo gesto amorevole per la vita, così troviamo nella poesia l’offerta, la primizia che, come una pietra votiva o un segnale stradale, ci indica chi siamo e chi abbiamo amato.