Sonia Lambertini, perlamara, Marco Saya editore 2019
Recentemente uscito per i tipi di Marco Saya editore, perlamara di Sonia Lambertini è itinerario poetico nella ferita del tempo, nei giorni della spaccatura in tutte le sue gradazioni, dal graffio allo squarcio passando per la lacerazione. I giorni della spaccatura sono i giorni di un inverno tardivo e di una tarda primavera che si ostina a nascondersi.
Divisa in cinque sezioni, articolate a loro volta in quattro componimenti la prima e la seconda, in sei componimenti la terza, la quarta e la quinta, la raccolta perlamara colpisce e convince per la disposizione accurata e precisa delle parole e per il ricorso a strumenti espressivi che, nell’attraversamento dell’oscurità, permettono, come scrive Elio Grasso nelle considerazioni introduttive, dal titolo Fuori dall’epoca, di tirarsene fuori «per guardare in faccia qualcosa di gratificante […] perlamara, dopo aver innalzato rovine, rasenta novità formali senza tendere imboscate: parlando d’altro, parla esattamente – oltre che di scrittura – di poesia.»
All’interno di questa raffinata strumentazione mi sembra opportuno menzionare due elementi portanti: il ricorrere di alcune ‘presenze’ e, in particolare, di quella del merlo, e la scelta della densità e della concisione.
Il merlo – che in perlamara appare, sosta e vola – manifesta la persistenza dell’inverno quasi come condizione esistenziale e le sue ali che conoscono il dolore sono spiegate, tuttavia, dunque disposte allo stupore.
Non è un caso, allora, che nei giorni del taglio e nei giorni del merlo il becco che raccatta, raccoglie, sminuzza, lacera, perlustra, sia una tra le parole che ricorrono con maggior frequenza.
Anche la forma breve è testimonianza di una riduzione all’essenziale, di un taglio del superfluo, di tempi “scarni e ruvidi”. La punta aguzza che acuisce il dolore è avvertibile quasi fisicamente, come onda sonora, attraverso le rime interne e le allitterazioni, così come attraverso i verbi, passati al vaglio di una lettera ‘s’ iniziale che scarnifica, «sgrava», «scricchiola», «sbecca», «smagra», «sprofonda», «scardina», «squarcia». In questo senso il terzo componimento della quarta sezione è esemplare per il procedere acuminato e penetrante, in una battaglia continua che non lascia indenne alcuno e alcunché: «Staglia la lingua, battaglia/ striscia. Sottoterra bisbigliano/ sottoterra. Gridano i folli, s’incurva/ il merlo, sbecca, mutila il canto.»
L’io non è scomparso, ma narra di sé nella sezione centrale, rigorosamente al tempo imperfetto, nella rievocazione di uno stato di emergenza, di deprivazione, di debito d’ossigeno, nello scenario di una catastrofe ambientale che accomuna nella devastazione umani e volatili. Se nella raccolta precedente, Danzeranno gli insetti, erano rintracciabili le tracce di una amorosa frequentazione della poesia dei due scrittori austriaci accomunati da quello che Aldo Giorgio Gargani nell’omonimo studio chiama “Il pensiero raccontato”, vale a dire Ingeborg Bachmann e Thomas Bernhard, in perlamara troviamo testimonianze di una lettura partecipe, appassionata, approfondita, delle loro narrazioni e, in particolare, dei romanzi Malina di Bachmann e Il Freddo di Bernhard: «Avevo un buco in testa/ un vuoto da anossia,/ un centimetro di respiro/ l’ombra di Grafenhof,/ glutei atrofici/ e andatura anserina.»
©Anna Maria Curci
Tagliatemi le mani, la corolla
tagliate i ponti, la coda del serpente
le antenne pettinate della bella di notte.
Tagliate la strada all’architetto, i suoi calcoli celesti
seguite il volo della foglia, ala gentile degli uccelli.
Tagliatemi il respiro, il calice leggero del sonno
pesate le pietre argento a metà nel petto.
Tagliate la lingua al merlo, il suo canto arriva ai morti
mangiate il grano nero che ho rubato dal becco.
Vesto il giglio rosso della Landstrasser
estetica del pensiero, dice l’architetto
una strana filogenetica la mia, vita di un petalo
pianta annua a vita breve, mostro denti profumati agli scarabei.
Sprofonda la colpa, buco della terra
rincuora il buio, se non è ombra
morte del respiro sul cuore stretto
aggiusta la giacca, scardina
il centro, dormi verticale
si fa per dire, malanotte accendo
parole secche, uccelli storditi
smorzano il fuoco. Le ali, dicono.
Avevo la memoria
un guscio d’uovo,
la sua forma globulare
l’andatura an
non riesco a dirlo
angor animi
volevo dire, il loro.
Sgrava il cuore il chiarore, l’abbaglio
ascesa verticale. Mala grazia, dicono,
mal stare. E il morto? Non ancora.
La lingua arrotola lucertola, s’impicca.
Offro sputacchio a fil di fiore
goccia verde di fine estate
o, se volete, occhio di luna
buffo gioiello di famiglia,
in cambio di veste terrestre
seta, cravatta rosso vino.
indecente morte, quaggiù
sempre a mostrare le interiora