Il giorno dopo il suo trentottesimo compleanno Virginia Woolf scriveva sul diario di essere contenta di aver trovato «a new form for a new novel». La questione si era posta con prepotenza in quei primi decenni del Novecento, per lei come per una intera generazione di scrittori e poeti ormai consapevoli della necessità di dover trovare nuovi strumenti per una nuova arte. Ciò che spinse la scrittrice ad affermare che nel 1910 il carattere umano era mutato non fu solo la morte di Edoardo VII che sanciva simbolicamente la fine di un’era e il declino dei valori vittoriani. Si aggiungeva, infatti, il manifestarsi delle nuove questioni sociali: la militanza suffragista, i movimenti di massa dei lavoratori, la minaccia di una guerra civile irlandese, ma anche la comparsa nell’Europa delle avanguardie di proposte culturali dai risvolti sociali oltre che estetici come la mostra “Manet and the Post-Impressionists”. Si collegava a tutto ciò il problema di dover sostituire delle convenzioni letterarie ormai percepite come inadeguate per la nuova generazione soprattutto dopo aver registrato i scarsi risultati di chi tentava di perpetuarle. Con la perdita di una visione solida della realtà, infatti, era venuto meno anche il linguaggio che la sosteneva ed erano perciò necessarie nuove strategie espressive che riflettessero l’ambiguità e le contraddizioni del reale. Nell’ambito del modernismo, i cui esponenti si fecero interpreti di questo smarrimento, la Woolf era portatrice di un importante punto di vista critico e di una personale elaborazione del problema che in lei si legava fortemente alla questione del personaggio. Ciò risulta particolarmente evidente se nel percorso che la porta dai primi due romanzi di fattura tradizionale a Jacob’s Room si pone l’attenzione su quel nucleo sperimentale significativo rappresentato dai racconti della raccolta Monday or Tuesday e dalla quasi contemporanea formulazione critica contenuta nel saggio Modern Fiction. Quest’ultimo rappresenta la prima dichiarazione da parte della scrittrice della presa di coscienza del nuovo corso e della conseguente necessaria ridefinizione del romanzo; la Woolf propone una separazione tra scrittori “materialisti” e “spiritualisti” determinata dal concetto di “proper stuff of fiction”. Mentre i primi si dedicano a ciò che la Woolf giudica triviale e non importante, i secondi hanno compreso che il contenuto del romanzo deve essere ciò che risiede nei recessi oscuri della psicologia, ogni pensiero, sensazione o percezione. Da qui si determinano le premesse dei successivi sviluppi della letteratura inglese: scegliere di privilegiare la dimensione interna del personaggio a scapito del resto ben presto significherà riprodurre le oscillazioni dei pensieri e delle percezioni, anche se ciò comporterà un adattamento delle strutture linguistiche, in altre parole utilizzare la tecnica dello stream of consciousness. Gli eventi non avranno più importanza propria, ad avere valore sarà il modo in cui essi sono percepiti e le ripercussioni che hanno non sulla trama, ma sulla mente dei personaggi; se, come afferma la Woolf, la vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente, ma un alone luminoso, sarà, necessario abbandonare o rielaborare i concetti di trama, tempo e identità e tutte le categorie che impongono un ordine arbitrario alla realtà.
Si tratta di una presa di coscienza che prosegue senza soluzione di continuità nella raccolta Monday or Tuesday del 1921 in cui il racconto The Mark on the Wall è avvertito come un punto d’arrivo dalla scrittrice perché privo di intreccio e interamente basato sulle impressioni di una mente che osserva e interpreta il mondo circostante, nel caso specifico una macchia sul muro. Nella stessa raccolta An Unwritten Novel è un perfetto esempio di metafiction, quel tipo di narrazione che ha come contenuto le sue stesse strutture, che pone l’attenzione sugli stessi processi che mette in atto. Nella Woolf, che non smetteva mai di scrivere in maniera assolutamente cosciente di sé, scrivere e contemporaneamente osservarsi, mantenersi a distanza di riflessione, si scorge il divario che si sta creando tra il narratore impersonale e mai visibiledi flaubertiana memoria e quello modernista e più avanti postmoderno estremamente presente e consapevole del mezzo.
Durante un viaggio in treno l’espressione infelice di una donna, lo strano tic del suo braccio che si torce dietro la schiena, alcune mezze parole sulla cognata e il tentativo di cancellare una macchiolina sul vetro con il guanto sono un richiamo ineluttabile per il narratore che, seduto dirimpetto, comincia a ricostruirne la storia nella propria testa. Si apre un livello narrativo parallelo in cui però il narratore dalla cornice continua a farsi sentire grazie a un sistema di incisi a volte in parentesi tonde e quadre. Si rivolge spesso dalla sua mente alla donna che ha deciso di chiamare Minnie Marsh per chiederle conferma di ciò che sta immaginando o per pregarla di non deconcentrarlo con i suoi movimenti, ma fa anche delle riflessioni tecniche chiedendosi su che cosa è meglio soffermarsi o che personaggi enfatizzare o lasciare sullo sfondo. Ci si rende ben presto conto dell’ironia nascosta in questa operazione quando il narratore decide che i gesti della donna sono da ricollegare a qualche colpa da espiare, a una macchia indelebile nel suo passato, si chiede perciò di quale crimine possa trattarsi. Alla fine il narratore deciderà che anni prima la donna aveva perso tempo a guardare dei nastri colorati in una merceria e dopo essersi inutilmente precipitata a casa aveva trovato il fratellino morto a causa di un incidente domestico. Il narratore del racconto nel racconto utilizza stereotipi e formule di certa letteratura d’intrattenimento tendente al melodramma e attinge a consunte convenzioni realiste, dal tema della colpa da espiare alla scelta di personaggi come la cognata matrona; si tratta di luoghi comuni, personalità e situazioni ricorrenti di quel realismo obsoleto imperante a inizio secolo. Quando il treno si ferma, il narratore è convinto di avere il suo personaggio ormai in pugno, ma la donna afferma di stare aspettando il figlio che poco dopo si presenta effettivamente a prenderla, allora tutte le certezze del narratore crollano di botto, i due livelli di narrazione sono portatori di due verità inconciliabili. Da questo punto di vista quello del finale si profila come un colpo di scena annunciato essendo il processo immaginativo già nei presupposti artificioso, ma il fallimento finale dell’immaginazione è qui più che altro il riflesso della limitatezza di certi contenuti. Le implicazioni dell’utilizzo di questo metodo nella resa del personaggio sono ovviamente di mettere sotto esame tanto il narratore quanto il personaggio. Se da un lato è possibile analizzare il personaggio di Minnie Marsh nel contesto di un mondo esteriore elusivo e inafferrabile, dall’altro lato l’atteggiamento verso di esso del personaggio narratore dà luogo a più di un’osservazione sulla sua personalità letteraria. Di fronte all’oscurità del reale i modernisti hanno rinunciato a farne un certo tipo di descrizione, la reazione nello specifico della Woolf consiste nel privilegiare quell’altro genere di realtà, parallela, ma nascosta, che dà significato a questa. A differenza di chi si affanna ad afferrare una realtà che non è afferrabile e men che meno con metodi che mirano a un certo genere di imitazione, la Woolf ne esce vincente, ancora di più l’arte che come regno della soggettività, quando domina il relativismo incondizionato, non può che paradossalmente essere portatrice di una verità assoluta. Tutto ciò che la Woolf cerca è una forma romanzesca capace di rappresentare adeguatamente la natura umana e la vita in sé delle quali Minnie Marsh è il simbolo. Questo racconto, affermazione netta della centralità del personaggio e della sua importanza come punto di partenza del processo creativo, è frutto dell’attitudine della scrittrice alla mescolanza dei generi e a mantenere un confine labile tra l’esperienza narrativa e i saggi che ne sono un prolungamento, ricchi delle stesse immagini di cui sfruttano il potere evocativo; non è un caso se pochi anni dopo il saggio Mr. Bennett and Mrs. Brown, che proprio questa tesi intendeva mostrare e argomentare, riproponga nella sostanza lo stesso episodio.
Il legame tra i viaggi in treno e l’ispirazione costituirà quasi un topos nella scrittrice, del 1922 è il saggio incompiuto sulla lettura Byron and Mrs. Briggs in cui la scrittrice paragona la lettura di un libro alla lettura della gente, riproponendo l’ambientazione dello scompartimento ferroviario. La stessa ambientazione ritorna in Jacob’s Room quando una donna è infastidita dal ritrovarsi chiusa da sola nello scompartimento con Jacob perché pensa che le uniche persone che possano vedere tutto l’uno dell’altro siano una vecchia signora e un giovane ragazzo seduti uno di fronte all’altro in un vagone ferroviario. Mr. Bennett and Mrs. Brown nasce nel 1923 come replica su The Nation and Athenaeum all’articolo Is The Novel Decaying? di Arnold Bennett pubblicato su «Cassell’s Weekly». L’idea principale dell’articolo di Bennett, uno degli scrittori che la Woolf aveva definito “materialisti”, era che alla base di un buon romanzo ci fosse la creazione del personaggio, ma notava che i giovani romanzieri, pur meritevoli, non erano stati in grado di creare dei personaggi reali. Proprio la Woolf era stata chiamata in causa: Bennett parlò del suo Jacob’s Room come di un romanzo scritto in maniera intelligente, ma con personaggi che non restano impressi nella mente. Alla base di questo saggio c’è di nuovo l’immagine potente di una donna all’angolo di uno scompartimento ferroviario che costringe qualcuno a cominciare a costruire un romanzo su di lei e stavolta è proprio la Woolf in persona che in uno pseudo episodio autobiografico racconta di averla incontrata durante un viaggio da Richmond a Waterloo e aver cominciato a immaginarne la storia. In seguito la scrittrice, pur appoggiando parzialmente la tesi di Bennett, si chiederà cosa possa significare per lui e gli altri scrittori della sua generazione, gli Edoardiani, che un personaggio sia davvero reale e per fare ciò li farà sedere uno dopo l’altro di fronte a Mrs. Brown. Perché in realtà, rivela la Woolf, il treno sta viaggiando da un’età della letteratura inglese all’altra, Mrs. Brown è semplicemente la natura umana e in quanto tale è eterna, sono gli autori che vanno e vengono. La scrittrice spiegherà che gli scrittori Georgiani, quelli della sua generazione, invece, siedono di fronte a lei senza sapere cosa fare perché gli strumenti degli Edoardiani per loro non vanno bene; c’è chi ha provato a usarli e a giungere a un compromesso e chi invece si è dedicato a distruggerli, ne è risultata una stagione di fallimenti e frammenti, ma la Woolf resta fiduciosa perché sa che basterà capire che non bisogna mai abbandonare Mrs. Brown per dare inizio a una grande età della letteratura inglese. Anni dopo possiamo affermare che la scrittrice non si sbagliava, e l’invito sembra ancora valido, non ci resta che cogliere la sfida di Mrs. Brown: «Catch me if you can».
© Stefania Pelleriti
3 risposte a “Stefania Pelleriti, Cercando Mrs. Brown: Virginia Woolf e la costruzione del personaggio”
non si potrà mai vivere un autrice che leggendola ma i ”luoghi” si muovon splendidamente
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bel saggio!
la Woolf ha moltissimo da insegnare e che qualcuno ci mostri le sue lenti di ingrandimento è buona cosa.
grazie
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Significativo l’intento di codificare in Virginia Woolf il luogo ricorrente del viaggio in treno, il suo evocativo senso del movimento fisico, della traslazione nello spazio, che è figura e metafora della traslazione psichica, dei pensieri, delle pulsioni, dei rimandi nel presente di ciò che ha inevitabilmente segnato il passato.
Elemento questo che fa riflettere su come a inizio Novecento la questione fosse trasversale alle discipline, alle forme espressive e ai generi. I parallelismi tra letteratura e arte sono quanto mai illuminanti.E’ la quaestio aperta del contrasto tra inerzia passatista, accademica e conservatrice, connessa all’istanza costruttivista, anche di una quarta dimensione non mimetica, che costituì il nodo centrale dei dibattiti, eterodossi ed eretici dell’Orfismo, in riferimento all’esperienza analitica e sintetica di Picasso e di Braque. La Brücke di Dresda che, del ‘ponte’ aveva fatto l’iconografia del congiungimento tra due sponde e nel contempo l’allontanamento e la definitiva presa di distanza dalla tradizione verso la comunitaria iniziazione delle giovani forze innovative dell’arte europea. Non ultima la percezione del dinamismo inteso come forme di continuità in Boccioni, come sommatoria delle parcellizzazioni di realtà eseguite attraverso il rimontaggio di immagini da fotogrammi in movimento cinematografico in Balla, o il meccanicistico, automatico e sinestetico avanzamento del Nudo che scende le scale di Duchamp.
Il tema dei rimandi e delle corrispondenze è altro topos letterario del periodo. Il richiamo inconscio alla memoria di quanto prodotto razionalmente attraverso un gesto, un pensiero, un’attitudine una circostanza. Il confluire e l’affluire incontrollabili sanciscono pari dignità al razionale assestarsi dell’esperienza, della sperimentazione, della scienza della realtà per averla conosciuta e memorizzata, introiettata nella psiche non semplicemente vista e restituita secondo una fragranza di mera illustrazione.
Lettura interessante perché motivo di riflessioni.
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