
Il mito omerico presenta Odisseo come l’eroe della curiositas, l’uomo πολύτροπον che molto errò e nella sofferenza conobbe per compiere il suo νόστος. Quello di Odisseo è dunque un viaggio di conoscenza che ha come fine il ritorno a casa. La figura di Ulisse è stata poi fin dall’antichità ripresa e trasformata, ora positivamente ora con accezione negativa. Venendo ai tempi delle tre corone, la tradizione dell’Odissea risulta mediata dai commenti e dalle citazioni degli autori latini in quanto non si conosceva il greco. Si tratta di una conoscenza di seconda mano che, come è accaduto per altri nomi greci quali Aristotele, ne ha modificato l’interpretazione. Dante non sapeva il greco e il suo primo riferimento per la figura di Ulisse è Virgilio, che nell’Eneide la tratta solo in modo marginale. Petrarca si lamenta della sua stessa ignoranza e in una lettera (Familiares XVIII, 2) dice di trovarsi costretto ad abbracciare un Omero per lui «muto». Solo in pieno 1400, con l’attività degli umanisti e di eruditi provenienti dalla Grecia come Emanuele Crisorora, si darà il via al pieno recupero dei testi greci.
In effetti Petrarca e Boccaccio avevano già preso a cuore la questione della traduzione dell’Odissea affidando il compito a Leonzio Pilato, monaco trai primi a conoscere il greco. Il progetto non ebbe però successo e lo dimostra il fatto che il multiforme Ulisse petrarchesco rimanda sempre a fonti latine o a quella dantesca di Inf. XXVI. Petrarca cita più volte nelle sue opere la figura di Ulisse, attribuendogli valori e caratteristiche ben diverse.
Nel Canzoniere Ulisse è presente una sola volta, nel sonetto CLVXXXVI, e in accezione del tutto generica. Virgilio e Omero, se avessero conosciuto Laura si sarebbero concentrati nel «dar fama a costei» piuttosto che ai propri eroi.
Se Virgilio et Homero avessin visto
quel sole il qual vegg’io con li occhi miei,
tutte lor forze in dar fama a costei
avrian posto, et l’un stil coll’altro misto:
di che sarebbe Enea turbato et tristo,
Achille, Ulixe et gli altri semidei,
et quel che resse anni cinquantasei
sì bene il mondo, et quel ch’ancisce Egisto.
Quel fiore anticho di vertuti et d’arme
come sembiante stella ebbe con questo
novo fior d’onestate et di bellezze!
Ennio di quel cantò ruvido carme,
di quest’altro io: et oh pur non molesto
gli sia il mio ingegno, e ’l mio lodar non sprezze!
Nel Triumphus Cupidinis Ulisse compare nel ruolo di conteso tra l’amore di Circe e quello di Penelope. Sia la tematica della fedeltà della moglie, a cui dedica il verso centrale, sia quella dell’ostacolo costituito da Circe sono principalmente riprese dall’Ovidio delle Eroidi, delle Metamorfosi e dell’Ars amatoria. Penelope e Circe sono accomunate dallo stesso amore anche in Orazio (Ode I 17).
Quel sì pensoso è Ulisse, affabile ombra
che la casta mogliera aspetta e prega;
ma Circe, amando, gliel ritene e ’ngombra.
(III, 22-24)
Nelle Familiares si fa più volte riferimento alla condizione di esiliato di Ulisse, che viene messa al pari di quella di Petrarca, nato già in esilio in quanto il padre era stato cacciato da Firenze («Ulixeos errores erroribus meis confer», Fam., I 1). In Fam., IX 13, diretta al cardinale Philippe de Vtry, in risposta alle lamentele di trovarsi lontano dalla patria, Petrarca fa un elogio del viaggio come esperienza necessaria per conoscere. Trai viaggiatori illustri compare anche Ulisse, di cui si parla così:
Uomo famoso per il suo continuo errare, dominati i suoi affetti, trascurati il trono e i suoi cari, preferì invecchiare tra Scilla e Cariddi, tra i negri gorghi d’Averno e quelle difficoltà di cose e di luoghi che affaticano persino l’animo di chi legge, che non in patria, e tutto questo solo per tornarvi un giorno vecchio e più esperto.
(Fam., IX 13, 25)
Questo Ulisse che rinnega gli affetti e la patria per errare e dunque conoscere è già più dantesco che classico e si avvicina a quello che incita i compagni a ripartire dicendo «Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza».
Troviamo dunque ora un Ulisse più classico e mitologico, ora un Ulisse che Petrarca avvicina a sé nella condizione di esiliato e viaggiatore in cerca di conoscenza.
L’intenso sodalizio tra Petrarca e Boccaccio, nonostante si consideri il secondo come discepolo del primo, è testimoniato da un nutrito scambio di lettere su due questioni principali: Omero, come si è già visto, e Dante. Un punto critico per l’ambiguo rapporto Petrarca-Dante è proprio la lettera destinata a Boccaccio sull’autore della Commedia (Familiares XXI, 15). Qui l’Aretino associa Dante al suo Ulisse di Inf. XXVI ma non è chiaro se con accezione positiva o negativa. Petrarca nella sua produzione sembra adattare la figura di Ulisse a seconda delle diverse necessità e questo non ci permette di arrivare a una posizione netta. D’altra parte l’Aretino stima molto Dante ma in questa stessa lettera si trova a rispondere di accuse che lo vedono in conflitto con il Poeta. Le ambiguità nel giudizio petrarchesco su Dante vertono sul seguente passo della lettera.
Difficilmente potrei ammirare ed elogiare a sufficienza chi non si è lasciato distogliere dalla strada intrapresa una volta per tutte né dalle offese dei concittadini né dall’esilio né dall’indigenza né dall’attacco nemico né dall’amore coniugale né dalla compassione per i figli.
Questa è evidentemente un’associazione tra Dante e il suo Ulisse che, come già visto nel passo di Fam. IX 13, per desiderio di fama e conoscenza non si è fatto trattenere da niente e invece di tornare a casa ha proseguito il suo viaggio.
Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e delli vizi umani e del valore
(Inf. XXVI, vv. 94-99)
Su questo punto la critica si trova in accordo, diverse sono invece le opinioni sul significato intrinseco del passo della lettera. Volendo seguire l’ipotesi di un Petrarca che sottende una critica velata a Dante, si riprende lo studio in merito di Enrico Fenzi.
Qui si dice che, certamente il desiderio di conoscenza irrefrenabile tanto di Ulisse quanto di Dante è per Petrarca un elogio, ma le divergenze trai due si trovano sul concetto che il viaggio assume per l’uomo.
L’elogio, tuttavia, appena lo si consideri più da vicino e lo si riporti meglio entro le coordinate di giudizio petrarchesche, rivela d’avere in sé il proprio limite. Impone, infatti, che ci si chieda: Dante/Ulisse, ha raggiunto la propria meta, o è naufragato prima di averla raggiunta? E poteva, poi, raggiungerla?
(E. Fenzi, Petrarca, Dante e Ulisse)
Due diversi cammini, due diversi viaggi per Petrarca e Dante/Ulisse, mossi però entrambi da sete di conoscenza. Ulisse nell’interpretazione dantesca, dopo aver lasciato Circe, decide di non tornare a casa ma di continuare il viaggio fino a quando, trovatosi ai piedi del monte del Purgatorio, viene inghiottito dalle acque. Quello dell’eroe è un viaggio orizzontale che si basa sulla sola forza dell’intelligenza umana e che per Dante non poteva andare a buon fine. Dove Ulisse si è fermato però sembra continuare proprio il Poeta che, raccogliendone il testimone, va verso il Paradiso (Dio) in un viaggio ascensionale di perfezionamento morale. Dante non condanna quindi il suo «folle viaggio» ma lo prosegue, supportato ora dalla fede e dalla sua teologia di uomo medievale. La critica di Petrarca è mossa forse proprio da questo non essere più uomo medievale ma già umanista, e nella sua diversa concezione incentrata sull’individuo e problematica verso il divino. Nessun uomo allora, neppure Dante, che pur sembra farcelo credere, ha mai raggiunto la vetta. La condanna petrarchesca è dunque nell’eccessiva smania di conoscere quel «troppo» che spinge Ulisse a superare le colonne d’Ercole e Dante a farsi unico tra gli uomini ad avere raggiunto la meta. Lo dice Petrarca nel Triumphus fame:
I tre Taban ch’i’ dissi, in un bel gruppo;
ne l’altro Aiace, Diomede, e Ulisse,
che desiò del mondo veder troppo;
(TF, II 16-18)
Il viaggio di Petrarca dell’Ascesa al Monte Ventoso (Familiares IV, 1) è invece un percorso di continui dubbi e incertezze che ha come scopo nient’altro se non un’intima conoscenza di sé. L’umanesimo cristiano di Petrarca, che molto deve al primo Sant’Agostino, è un rapporto sempre problematico tra le passioni terrene e la fede, tra l’uomo e Dio. Per questo durante il percorso vacilla, è tentato di tornare indietro o di prendere la strada più veloce, per questo la via costituisce già il suo viaggio. Arrivato sulla vetta, infatti, apre a caso le Confessioni di Agostino e legge questo brano.
E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi.
Petrarca si serve dell’associazione Dante/Ulisse per spostare l’attenzione dalla meta sul viaggio e riportare Dante alla dimensione di uomo. Petrarca sembra quindi dire questo: Dante, come Ulisse, si è messo in gioco fino in fondo intraprendendo un viaggio umano che gli ha fatto intravedere la meta ma non raggiungerla.
L’associazione petrarchesca Dante/Ulisse si legge dunque a un primo livello come elogio della curiositas, ma restituisce a un grado più implicito quella dimensione di limite umano che Dante aveva ben espresso per i suoi personaggi ma «dimenticato» per il proprio viaggio.
© Sara Vergari
4 risposte a “Petrarca contro Dante. Sull’Ulisse e il viaggio”
L’ha ribloggato su Paolo Ottaviani's Weblog.
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Ulisse è un personaggio eternamente attuale e sempre incredibilmente moderno, il simbolo della perenne ricerca dell’uomo sul perchè della sua stessa vita, sui temi della conoscenza e del sapere.Ed anche simbolo dell’energia fisica e morale, del coraggio e della speranza costantemente necessari per compiere tale ricerca
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Non per amore di conoscenza Ulisse vaga per il mare e se trattenuto da Circe, Nausica ed altro pensa alla sua Itaca che però appena l’ha raggiunta, parendogli troppo stretta, come dice Kazantzakis nella sua Odissea non inferiore a quella di Omero, tradotta con una bravura e poeticità incredibile da Nicola Crocetti, la lascia in cerca di avventura ed allora si innesta Dante che dice che la vita non va vissuta come bruti ma illuminata dall’ amor di conoscenza
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L’Ulisse dantesco vaga per “virtute e canoscenza”, e non può essere altrimenti per un cristiano del Medioevo, e Dante è uomo medievale fino alle midolla; un pagano può essere preso in considerazione solo se è un esempio per un uomo retto.
La lettura di Ulisse varia ogni qualvolta varia il lettore e il secolo d’appartenenza di quest’ultimo. Perciò l’ultimo Ulisse sarà sempre carico di altri valori.
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