
Egon Schiele fra Eros e Thanatos
di Giangiacomo Scocchera
A Sonia, in memoriam
L’articolo che qui si presenta vuole essere un invito alla conoscenza di uno dei più grandi artisti del Novecento, il pittore e grafico espressionista austriaco, Egon Schiele, morto a soli 28 anni di febbre spagnola il 30 ottobre 1918, due giorni dopo il decesso della moglie Edith Harms, al sesto mese di gravidanza. Schiele è poco noto in Italia, solo negli ultimi tempi, ma sempre in modo limitato e specialistico, sono comparsi studi sulla sua arte e sulla sua tormentata esistenza, in concomitanza, soprattutto, con la celebrazione del centenario. Ho qui trattato di una via di accesso di sicuro fascino e interesse, quella che riguarda l’aspetto più sconvolgente e rivoluzionario della sua arte: l’incontro-scontro fra Eros e Thanatos, l’amore e la morte, due diverse visioni dell’esistenza che si incontrano, si cercano, si respingono, in un complesso gioco di figure specchiate che avevano sconvolto l’io dell’artista, sino a destrutturarlo e sdoppiarlo. Schiele, meglio di altri artisti del suo tempo ha rappresentato questa sconvolgente realtà, questo scontrarsi di sentimenti cercando nel profondo dell’animo umano e rappresentando la sua immagine interiore. Innanzitutto lavorando su se stesso con il mezzo dell’autoritratto e del corpo nudo, esposto ad essere scarnificato, martirizzato, deformato: un corpo che rifiuta il bello e il decorativismo secessionista del ’padre’ Gustav Klimt, dal quale anche Schiele aveva preso le mosse contrapponendosi all’ingessata perfezione formale accademica, per poi proseguire un personale percorso che lo aveva portato non a figurare ciò che si vede, la superficie dei corpi, ma ciò che è nell’animo tormentato, facendole emergere attraverso deformazioni spastiche delle figure, alterazione delle espressioni del volto, rappresentazioni patologiche dell’io malato. Il decorativismo aureo e simbolico dello Jugendstil, la visione onirica, estatica, dei corpi di Klimt, sono aspetti che non possono più appartenere a Schiele, la stessa donna che tanto posto trova nell’immaginario di Gustav, non è quella delle sue linee flessuose, pesciformi, sinuose, immerse in un liquido primordiale, non ha la carne sensuale e dorata, non si mostra nel volto crudele delle Giuditte assassine, castranti, con le loro dita artigliate, con la loro vagina dentata; nemmeno è la donna segreta, riprodotta nell’estasi autoerotica delle lunghe dita arpeggianti, dei disegni proibiti; la donna di Schiele è altra cosa, la sua è carne ammassata, il volto è legnoso, deformato, macchiato, il corpo nudo non ha sensualità né perdite mistiche, è un corpo abbandonato a se stesso, non è visto dentro l’intimità dell’alcova, ma quasi sul piano di marmo dell’obitorio. Quello che vuole mostrare Schiele è la consapevolezza della perdita del centro, il perdersi alla deriva, l’angosciosa essenza del male di vivere, la tormentata esistenza dell’uomo contemporaneo che si trova di fronte alla catastrofe di una cultura, di una civiltà: la fine dell’imperialismo asburgico, del mito dell’Austria Felix. Nei suoi dipinti più significativi e sconvolgenti, il pittore abbandona ogni remora, squarcia il velo del comune e ipocrita senso del pudore, sceglie un nudo radicale e apparentemente scandaloso per mostrarsi e mostrare la propria personale tragedia che è poi la tragedia di tutti. Schiele è disposto ad esporsi, ad accettare il martirio, a sacrificarsi come un Cristo malato e agonizzante. Dipingendo il manifesto della mostra alla Galleria Arnot, del 1915, con L’artista come S. Sebastiano,[1] Schiele abbandona tutta la tradizione classica e, provocatoriamente sostituisce il nudo eroico del Santo con una figurazione vestita ed un volto perduto nell’estasi del dolore che le frecce che lo penetrano, gli procurano. Come Antonin Artaud che non ha avuto timore, rinchiuso in manicomio di auto-raffigurarsi con un volto tagliuzzato, scarnificato, cancellato, Schiele ha mostrato la sua anima lacerata, ha inciso la carne col pennello-bisturi, ha tolto il superfluo, ha fatto emergere l’angoscia del vivere. Il regime di Schiele è un regime notturno, rispetto a quello diurno di Klimt, un simulacro di morte, rispetto a quello del felice sonno di Gustav.
L’ultimo dipinto di Egon è La famiglia,[2] un olio realizzato nel 1918. Si tratta di una ri-elaborazione del modello tradizionale della Sacra Famiglia cristiana, dove qui la rinnovata famiglia borghese si mostra nella sua scarna nudità e nella sua incompletezza ( il figlio seduto in basso non nascerà mai, la sua presenza fra le gambe semiaperte della Grande Madre posta accovacciata al centro è la figurazione di un desiderio ), nella sua costruzione piramidale con il pater familias in alto in posizione dominante, ma con una espressione non partecipe, quasi distaccata ed estranea; ma l’estraneità è generalizzata nel dipinto: nessuno guarda l’altro, nessuno dei due genitori guarda il bambino, come se la scena fosse l’immagine di una prossima assenza. Sebbene il padre è un autoritratto nudo di Egon, la madre in basso non è Edith Harms, forse perché già malata e debilitata, e il figlio atteso e ancora non nato è forse un desiderio trasmesso dall’immagine del nipotino e allora è chiaro e struggente il dolente finale della poesia di Georg Trakl: la guerra che tutto distrugge, anche i desideri: “Oh lutto orgoglioso! Altari di bronzo, un immenso dolore nutre, quest’oggi, la fiamma cadente dell’anima, i non nati nipoti”.[3]
UN ABBRACCIO DI MORTE.
L’incontro di Eros e Thanatos
“Esisto per me e per coloro ai quali la mia sete inestinguibile di libertà
dona tutto, ed esisto anche per tutti perché -anch’io so di amare-amo tutto,
sono il più nobile fra gli spiriti nobili, il più generoso nel restituire. Sono un
essere umano, amo la morte e amo la vita.”
. Egon Schiele da Liriche e prose in Vita d’Artista, 1999
“…lascia che l’uno nell’altra sprofondino, per resistersi ”
. Da Die Liebenden (Gli amanti), 1908, di Rainer Maria Rilke,
. tr. it. Giaime Pintor, edizione di riferimento 2004
L’abbraccio (indicato talvolta con il secondo titolo Gli amanti)[4] venne realizzato da Egon Schiele nel 1917, a ventisette anni, un anno prima della morte, in pieno conflitto mondiale. La dissoluzione dell’impero asburgico, gli avvenimenti tragici di quei giorni, le migliaia di morti, la sconfitta che si profilava alle porte di Vienna, la presenza concreta e distruttrice della morte sull’Europa, furono fatti che incisero non poco sull’animo tormentato dell’artista. Ma la presenza della morte non solo come momento di conclusione, di allontanamento, di uccisione delle speranze, ma anche come attrazione, come fatale coinvolgimento e come presenza costante nella vita dell’uomo sin dalla nascita, quasi che l’uomo stesso nascesse per la morte, è presente già da molto tempo prima nel pensiero di Egon. Scrive nel 1910 che tutto “nella vita è morte“; ogni atto ha un carattere di cessazione, di distruzione e più di ogni altro l’atto erotico: amare passionalmente, amare carnalmente, è un po’ come morire. È la convergenza degli opposti di eros e thanatos. Ha scritto Bataille ne L’Erotismo (1957), che “alla base dell’erotismo vi è un senso di continuità che ha la sua sorgente nella morte. Il senso di vertigine che essa suscita è la sensazione che alla superficie di quel passaggio che si frappone fra discontinuità e continuità”.[5] Nell’abbraccio, l’uomo e la donna, nella loro fredda e quasi mortuaria nudità, sono uniti non propriamente dalla passione, dal desiderio, dal coinvolgimento erotico, quanto sono avvinghiati, in un disperato attaccamento che è soprattutto un allontanamento dalla vita o, se vogliamo, un estremo attaccamento, non nella vita stessa, ma nella morte. Come se essa fosse difesa, rifugio e piacere. I colori sono spenti, molto asciugati, l’incarnato dei corpi nudi vira sul gioco dei rosa e dei bruni chiari e scuri che, specie nella schiena dell’uomo, sembrano aggrediti da macchie come grossi ragni che mettono in rilievo la tensione dei muscoli, sono tirati non tanto nell’azione erotica, quanto nella aggressione disperata alla carne, come se l’abbraccio fosse una protezione da un pericolo imminente. Il lenzuolo bianco è un indice simbolico del sudario, del lenzuolo mortuario; su di esso sono deposti i corpi nudi in un amplesso che sembra un’agonia. Si notino due particolari: le pieghe del lenzuolo che appaiono come onde in un mare caotico e le punte a dente del guanciale, come se fossero le fauci chiuse di un lupo o di uno squalo. Ma se vogliamo anche le affossature, i buchi che si vedono verso l’esterno al di sopra della donna che sono sì indici erotici dei sessi, ma anche segni di un terreno accidentato, difficile, crepato. Anche i capelli neri ed i peli pubici, come grandi macchie inquietanti o come onde di inchiostro che attraversano il bianco mortuario del lenzuolo. L’assenza dello sfondo ha una sua importanza, la superficie di pennellate nervose spegne l’azione erotica, gli toglie dimensione, prospettiva, punto di vista. Come vediamo i due amanti non si guardano, non si baciano; i loro volti sono divergenti. La donna schiaccia le labbra sulla spalla dell’uomo e con la mano tiene lontano da sé e schiacciato in basso il viso dell’uomo; questi abbraccia la donna in uno spasimo che mozza il fiato: è un estremo tentativo di rimanere legato alla vita, alla speranza. È noto che Schiele si fosse ispirato a un famoso dipinto dell’amico e compagno in arte, Oskar Kokoschka (entrambi erano stati allievi di Klimt dal cui raffinato decorativismo si erano poi allontanati), La sposa del vento,[6] realizzato nel 1914 ispirandosi alla propria devastante passione per Alma Mahler, vedova del grande compositore Gustav, di cui era stato amante per due anni e che era bruscamente finita. Questo riferimento alla fine della storia d’amore fra Oskar ed Alma, era ripreso da Egon Schiele come analogia della fine della sua storia d’amore con la modella-amante Wally Neuzil, dopo la scelta borghese di sposare Edith Harms. Nello straordinario dipinto troviamo lo stesso agitarsi ondoso delle lenzuola (l’opera è nota anche come La Tempesta, metafora delle sensazioni che travolgono i due amanti e la loro passione alla deriva) dove sono distesi i due amanti nudi. Tuttavia qui non è presente il senso del tragico estremo, non si avverte la presenza inquietante della morte, non vi è il disperato unirsi nel distacco, ma vi è un altro tipo di inquietudine: l’uomo, che è il ritratto dell’artista stesso, è sveglio, con gli occhi spalancati tormentato, conscio di essere in preda alla tempesta della sua passione che sta per finire, teso nel flettersi dei nervi, con la testa immobilizzata dall’angoscia in un’attesa senza fine, alla ricerca impossibile di un equilibrio fra ragione e sentimento. La donna, che è Alma Mahler, vedova del grande compositore, invece, dorme serena, ignara del dopo, appoggiata col suo corpo nudo su quello dell’amate senza curarsi delle angosce esistenziali che disturbano la sua psiche, proiettata verso una nuova passione, quella per l’architetto fondatore della Bauhaus Walter Gropius. Schiele aveva molto amato questo dipinto e lo aveva attentamente studiato, riprendendo l’idea dei corpi nudi adagiati in uno spazio piatto e sconvolto da forme e linee tempestose. Durante una sua visita all’atelier di Kochoschka, il grande poeta espressionista Georg Trakl che ha non pochi punti in comune con la poetica espressionista dello stesso Schiele, rimase molto impressionato dalla grande tela dipinta in uno studio con le pareti completamente verniciate di nero per far risaltare i colori del quadro. Il poeta rimase in silenzio, quasi in religiosa contemplazione, in una serata di luna piena, con un forte vento che entrava dalla finestra, di getto scrisse i versi della lirica Notte che diedero il titolo al quadro: “su livide rocce/precipita, ebbra di morte/ l’ardente sposa del vento”.[7] Kokoschka, Trakl, Schiele, tre grandi artisti, tre vite fra eros e thanatos, pur nelle loro differenze: Oskar, per dimenticare Alma, parte volontario per la guerra, rimane gravemente ferito, viene ricoverato per problemi psichici, addirittura, sconvolto per averla perduta si fa costruire una bambola con le sue fattezze che dipinge tante volte e alla fine distrugge in un gesto d’ira. Trakl, divorato dall’amore incestuoso per la sorella Grethe, parte per il fronte come farmacista, assiste al massacro di Godrek sul confine polacco, si droga di coca e muore di overdose. Schiele, dopo anni di vita bohémien con Wally, modella e amante perfetta, viene accusato di spaccio di materiale pedopornografico, che altro non sono agli occhi dei benpensanti i suoi disegni erotici e arrestato perché accusato, innocente, di aver dato ospitalità notturna ad una minorenne nella sua casa oggetto di infiniti pettegolezzi da parte dei vicini per le abitudini sregolate della scandalosa coppia; soprattutto subisce le ferite del distacco da Wally dopo aver deciso di dare regole alla sua vita e ai suoi affetti con un matrimonio borghese. Nell’Abbraccio, questo compenetrarsi di amore e morte, di desiderio impossibile di continuità e di inevitabile disgregazione, sono espressi in pieno: lo scontro-incontro è passivo, senza espressione di un sentimento, ma con una congiunzione disperata nell’eros, senza sguardi, senza baci, coprendo i volti, contraendo i gesti, separando i sessi: quello dell’uomo non si vede, quello della donna appare appena da sotto il lenzuolo, mentre ella, nel suo abbraccio mostra simbolicamente con le grandi mani l’apertura (le dita a forbice sono un gesto di antica tradizione figurativa che ha il suo referente più esplicito e importante in Flora di Tiziano agli Uffizi, ma Schiele, che certo conosceva il dipinto attraverso copie e fotografie, poteva aver visto anche quello di Io che abbraccia Giove-Nuvola, nello stupendo abbraccio erotico del dipinto del Correggio, Giove e Io, al Kunsthistorisches Museum di Vienna), ma anche la chiusura, con le dita strette che toccano l’orecchio dell’amante, mentre la sua bocca è schiacciata sulla sua spalla: un amore che non ha più parole, come non ha più sguardi. È poi l’impeto della morte che travolge: la massa enorme dei capelli neri della donna che invade il talamo e immiserisce la piccola nera peluria del sesso, il grande lenzuolo-sudario pronto ad avvolgere i corpi inerti, i denti aguzzi del cuscino pronti a divorare gli amanti. Questa rappresentazione dualistica e contrastante di Eros e Thanatos sviluppata da Schiele nella sua ricerca ossessiva, quasi demoniaca, del disfacimento grafico dei corpi maschile e femminile e, nello stesso tempo, del loro ricomporsi, verrà sviluppata sul piano psicanalitico da Freud più tardi, nel 1920, nell’opera Al di là del principio di piacere,[8] dove si giunge a concepire la teoria dei due opposti dell’esistenza biologica e psichica: accanto al desiderio di conservazione, esiste un desiderio di distruzione. Le pulsioni sessuali sono per Freud le autentiche pulsioni di vita e tendono alla conservazione e all’unificazione, di contro alle pulsioni di morte che invece portano alla disgregazione e alla divisione.[9] Alla radice del pensiero di questo studio freudiano vi era la concezione della coazione a ripetere, cioè la tendenza che hanno gli individui nevrotici a ripetere situazioni dolorose e violente vissute in passato e questo al di là del principio di piacere. Dopo aver considerato che il fine di tutte le pulsioni di ogni essere vivente è quello di un ritorno ad uno stato inorganico iniziale, alla fine della vita, alla morte e che, quindi, vi è contraddizione fra pulsioni di autoconservazione e pulsioni di distruzione, Freud precisa come nella vita dell’organismo umano “…un gruppo di pulsioni si precipita in avanti per raggiungere il fine ultimo della vita il più presto possibile, l’altro gruppo, giunto ad un certo stadio di questo percorso, ritorna indietro per farlo nuovamente a partire da un determinato punto e prolungare così la durata del cammino”.[10] Come abbiamo detto più sopra il rapporto fra Eros e Thanatos, fra conservazione della vita e distruzione di essa, verrà trattato da Georges Bataille, il quale considera come l’erotismo sia “l’approvazione della vita fin dentro la morte”[11] e come esso, estraneo al valore della riproduzione, sia essenzialmente il mezzo unico della continuità naturalmente desiderata dell’essere umano che è tuttavia essenzialmente legato alla discontinuità e come questa continuità, che può essere raggiunta tramite l’erotismo, necessita di una componente di violenza che è indispensabile appunto per superare la discontinuità dell’uomo.[12]
La morte personificata, come angosciosa presenza e come assassina dell’amore, aveva avuto un’anticipazione in un altro inquietante dipinto, del 1915-1916, Morte e ragazza,[13] conservata nel castello del Belvedere a Vienna, in cui Schiele evidenziava, la perdita dell’amore (e del rapporto di collaborazione) dell’amante e modella Wally.[14]. È un dipinto straordinario, esteso in larghezza, il cui centro è evidenziato da un rapporto analogico fra due teste unite in una combinazione elicoidale: la testa tenebrosa, rugosa, fredda e legnosa della morte vestita di nero e quella pallida, timorosa, sconfortata, di una ragazza con i capelli castani, il volto aggraziato e le labbra rosse che si abbraccia alla morte allungando le sue braccia come fossero estendibili, elastiche e potessero adattarsi ad allacciare la morte alla vita dietro la schiena. La donna, i tratti sono quelli di Wally, è vestita con una tunichetta colorata, arlecchinesca, fatta di pezzette con varianti di colore, dal bruno al grigio, al rosso, al giallo, all’arancione, che termina con una seghettatura, anticipazione di quanto si vedrà nei bordi del cuscino dell’Abbraccio: denti aguzzi, punte che potrebbero martoriare la carne delle gambe già invasa da macchie scure. Il personaggio maschile ha i tratti inconfondibili di Egon, un Egon-Morte, con una testa legnosa, affumicata dal nero carbone, segnata da rughe come solchi; veste una tunica fratesca, nerissima, inchiostro, che stride con il bianco del lenzuolo e mostra gambe che hanno le stesse macchie scure del volto. La Morte ha la testa piegata dietro quella dai capelli rossicci della ragazza e ha la mano scura e scheletrica sui suoi capelli, una mano che evidenzia lo stesso gesto erotico delle dita a forbice. La Morte ha un grande occhio spalancato, assassino e la posizione della testa è quella vampiresca: è pronta ad affondare i denti aguzzi nella morbida sensuale carne della ragazza. Schiele doveva aver visto il dipinto di Hans Baldung detto Grien, La morte e la fanciulla, del 1517, al Kunstmuseum di Basilea, dove una Morte-Scheletro gialla azzanna una bianca fanciulla nuda, ma lo fa con un mortale abbraccio seduttivo, compromettendo la virtù della giovane e instillando in lei il sapore del peccato. Nella sovrapposizione fra allegoria e figura umana, fra virtù, peccato e morte di Hans Baldung, Schiele vede e ‘sente’ un’altra immagine, quella di una presenza inquietante e angosciosa che uccide l’amore e la speranza, un incubo, forse anche la figurazione di un rimorso. I due personaggi sono entrambi perduti, disposti su di una zattera alla deriva, ma anche su un sudario che li accoglie nella nuda terra, come in una tomba. Lo sfondo è anche qui piatto, ma sconvolto da grandi campiture di colore scuro (carbone, ocra macchiato di nerofumo, rosso nerastro, verde bruno) rigonfie, ammassate, come zolle di terra dissodata. Nel dipinto la donna tenta un ultimo disperato approccio, vorrebbe dare se stessa, stringe in un abbraccio che vorrebbe essere erotico (le spastiche dita dietro la schiena della Morte sono ad anello), l’amante perduto, ma esso ha messo l’altra faccia, si è trasformato, succhia la vita e i ricordi colorati che affondano nel nero del suo manto. L’artista assume in sé l’icona tragica della morte, non vuole più vedere, la grande pupilla è cieca: non c’è futuro, non c’è più amore, solo il senso di un abbraccio fatale che preannuncia la fine che sarà ribadita nel dipinto del 1917, quando il talamo è oramai diventata una tomba.
Gilbert Durand,[15] ricorda come nell’Antigone di Ballanche, la tomba è proprio il talamo nuziale, il luogo dove si inizia la vita e dove si finisce: il luogo dell’eterno incontrarsi e scontrarsi di Eros e Thanatos.
Giangiacomo Scocchera
Roma, 16/02/2019
[1] Egon Schiele, L’artista come San Sebastiano, manifesto per la Galleria Arnot, china a colori coprenti, 67×50 cm, Historisches Museum der Stadt, Wien.
[2] Egon Schiele, La famiglia, 1918, olio su tela, 152,5×162 cm, 5, Österreichische Galerie Belvedere, Wien.
[3] Georg Trakl, Godrek, introduzione e traduzione di Ervinio Pocar, Rizzoli, Milano, 1974.
[4] Egon Schiele, L’abbraccio (Umarmung), 1917, olio su tela, 100×170,2 cm, Österreichische Galerie Belvedere, Wien.
[5] Georges Bataille, L’erotismo, Milano, Mondadori, 1976, pp. 26-30.
[6] Oskar Kokoschka, La sposa del vento, 1914, olio su tela, 181×202 cm, Kunstmuseum öffentliche Kunstsammlung, Basel.
[7] Il ricordo della scelta del titolo dopo la visita di Trakl e l’intera poesia in Oskar Kokoschka, La mia Vita, a c. di Carmine Benincasa, Venezia, Marsilio, 1982. Per una buona visione del dipinto cfr. www.myswitzerland.com/it-it/la-sposa-del-vento.html.
[8] Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere, IX, Torino, Bollati Boringhieri, 1986.
[9] Ibidem, p. 225.
[10] Ibidem, pp. 226-227. Degli aspetti psicologici nell’arte di Schiele ho ampiamente trattato nel mio libro di prossima pubblicazione; si veda comunque Eric R. Kandel, L’età dell’inconscio. Arte mente e cervello dalla grande Vienna ai giorni nostri, Cortina, Milano, 2012.
[11] Georges Bataille, L’Erotismo, cit., p. 31.
[12] Christoph Wulf, Andrea Borsari, Le idee dell’antropologia, Pearson Italia, Milano, 2007, p. 277.
[13] Egon Schiele, Tod und Madchen (La morte e la fanciulla),1915-16, olio su tela, 152,5×150 cm, Österreichische Galerie Belvedere, Wien.
[14] Egon Schiele, Morte e ragazza, 1915-1916, olio su tela, 150×180 cm, Österrechische Galerie Belvedere, Wien. Il dipinto si può agevolmente vedere con buona risoluzione dell’immagine in R. Stein, op. cit., p. 71 e con ottima risoluzione nell’Archivio digitale della Galleria del Museo del Belvedere, https://digital.belvedere.at/tod-und-mädchen.
[15] Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario, Bari, Dedalo, 1974, p. 241. Ha scritto Umberto Galimberti: “che Eros che tende a creare e organizzare delle realtà sempre più complesse e armonizzate. Thanatos tende a far tornare il vivente ad una forma di esistenza inorganica”; cfr. Umberto Galimberti, Enciclopedia della Psicologia, Milano, Garzanti, 2001, p. 800. Ed è questa aggregazione e disgregazione, questa unione ed espulsione (Bataille, nell’Erotismo, cit., chiama l’orgasmo “la piccola morte”), che Schiele raffigura nei suoi dipinti simbolici, specie negli ultimi quando amore e morte erano così vicini e così lontani.