Andrea Pomella, L’uomo che trema, Einaudi 2018
L’uomo che trema è l’autore, ma non solo. Perché in questo libro c’è una sorta di trinità, tutt’altro che santissima. C’è un uomo, il protagonista. C’è una generazione, quella del protagonista e c’è l’umanità intera. Perché un libro è davvero efficace e capace di resistere al tempo quando in sé contiene la metafora di qualcosa più grande della singola storia che racconta. Un libro è davvero un gran libro quando, in fin dei conti, in sé contiene una metafora della vita stessa.
Quale metafora più potente della rappresentazione del male oscuro che è il vero protagonista dei tempi moderni? La depressione, che per contrasto lo stesso Andrea Pomella in un capitolo del libro definisce “Il male bianco” assume forme diverse e sempre mutevoli ma contiene anche tratti comuni a tutti gli uomini. Per questo a tremare è l’io narrante, ma narrando la sua storia racconta anche la storia che è quella di una generazione che un po’ alla volta ha perso i propri punti di riferimento, come lo stesso autore all’interno dell’evolversi del racconto della sua vita vede venire meno il punto di riferimento fondamentale per un bambino, la figura paterna. Il rapporto all’interno della famiglia, altro tema fondamentale ancora tramandato in forma di santissimo Totem intoccabile da una società che spesso fatica a fare i conti con tutte le sfumature di grigio che attraversano la nostra vita a partire dal pallido bianco fino alle oscurità del nero che molti si portano dentro.
La sensazione di potercela fare, di poter fare da soli, di potersi portare dentro i propri mali, di poterli in qualche modo nascondere. Credere di poter tenere a bada il mostro, di poter incatenare l’animale che ci portiamo dentro. Quando poi invece un giorno come gli altri, nel parcheggio assolato di una scuola semi deserta la vita ci presenta il conto. Ce lo presenta tutto insieme, compreso di coperto e servizio. Ed allora tutto quello che credevamo a portata di mano comincia a sfuggirci, come cominciano a sfuggire le risposte che credevamo bastassero, la spiegazioni che l’uomo che trema pensava potessero servire a nascondere quel dolore. Da lì sfogliare le pagine de L’uomo che trema (edito da Einaudi) è come osservare il pelo dell’acqua dopo un naufragio, un po’ alla volta tornano a galla i pezzi di tutto quello che è andato in frantumi nella vita del protagonista, che in fondo è anche la nostra. Chiunque leggendo il libro di Pomella può riconoscere i sintomi di quel male bianco in qualcuno a lui vicino. Un genitore, un fratello, un amico o proprio in sé stesso. Ed ecco che la trinità si (ri)compone. Perché c’è l’autore che racconta di sé, ma racconta anche di una generazione che vede la terra mancargli sotto i piedi ed il futuro cadergli davanti agli occhi come un sipario montato male, ed infine c’è il ritratto di un mondo, quello moderno, che va in una direzione ostinata e contraria al benessere di molti. Un mondo che induce a vedere nelle cadute delle persone più deboli un difetto da additare. Una società che non sa elaborare problemi complessi come la ricostruzione di un passato problematico. Un contesto che non ammette di poter sciogliere i propri nodi. La lotta dell’uomo che trema è quindi interiore ma anche esteriore. Nel tentativo di gestire i sintomi del proprio male senza per questo poter cedere e mostrarsi debole in un contesto lavorativo che potrebbe mal tollerare le sue défaillance. I pochi appigli in questo percorso ad ostacoli sono dati da chi in quel dolore si riconosce. Le mani tese vengono da chi in quel tremore riconosce sé stesso. Una sorta di mutuo soccorso. Così Grazia, la compagna di Andrea, e Rossana, la collega della scuola di cinema, meglio di tutti gli altri riescono a tirare fuori dall’uomo in difficoltà le energie necessarie a superare le innumerevoli crisi che lastricano il percorso verso la ripresa.
Non c’è guarigione in questo libro, perché non c’è guarigione dalla depressione. C’è semmai accettazione, comprensione, di sé stessi in primis e dei sintomi poi. C’è presa di coscienza di quelle stanze buie che abbiamo tenuto chiuse per troppo tempo. Stanze che vanno abitate seppur dolorose. C’è assunzione di responsabilità nei confronti delle proprie scelte. C’è la serenità di perdere il controllo delle cose, di considerare nel novero della propria vita l’imprecisione. C’è dunque evoluzione, perché insieme al male bianco evolve anche l’uomo che trema; che pagina dopo pagina riesce a guardare la sua mano tesa sempre più ferma.
© Raffaele Calvanese