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Salvatore Ritrovato, La casa dei venti (rec. di Gianni Iasimone)

La casa dei venti di Salvatore Ritrovato

Il titolo del nuovo lavoro, in forma di elegante plaquette, La casa dei venti (Il Vicolo, 2018) di Salvatore Ritrovato, nato in Puglia nel 1967 ma da decenni urbinate di adozione, che ha al suo attivo molte pubblicazioni in poesia – solo per ricordare le ultime: L’angolo ospitale, (La Vita Felice, 2013), Questa strana pace (Esta extraña paz), Progetto cultura, 2016, Cercando l’isola, (Fiorina, 2017) –, a differenza di tutti i lavori precedenti, più vicini a uno stile fortiniano del primo periodo, straniato e solitario in una incessante ricerca di un “angolo ospitale” dove si possa trovate una improbabile quiete, sembra rimandare a un’immagine di sospensione, a una condizione di dolorosa “esposizione”: ai venti, alle ambasce ma anche alle sorprese, alle meraviglie che permeano un’esistenza del nostro tempo malconcio, sempre più esposta a imput mediatici e superficiali, che sovente vincono facile sui richiami più profondi e millenari, più significativi, necessari.
In tale non scontata prospettiva, in questa piccola raccolta “in verticale” l’esperienza poetica di Ritrovato apre nuove finestre di senso, con riferimenti – pur velati da un colto pudore – alla tradizione del nostro migliore Novecento, un nome per tutti: Volponi e il suo umanesimo letterario e non solo, ad esempio, ma occasione e quadro insolito (precario?) di un detto collettivo non gridato, sempre amaramente sensibile e strutturalmente retorico, lirico, ancorché anti realistico, anti simbolico. Squisitamente moderno e coinvolgente. E se la lettura inizia con una dichiarazione programmatica anti io, dove l’autore scopre subito le sue carte e si apre, squaderna l’io lirico come nevrotico e problematico, come «sentimento mortale di queste pagine», come «padrone in lungo e in largo del suo deserto / di ogni piega o vena di verità che lo ha piagato», come un vecchio (saggio?)e nuovo pater all’interno e fuori delle dinamiche epifenomeniche dell’esperienza, man mano che scorrono agili le pagine della plaquette viene chiara e forte un’immagine più completa di questo autore che qui trova uno dei momenti più ispirati e creativi introdotti dall’esatta, geometrica poesia Bagatelle di viaggio, risolta in otto quartine in cui le assonanze e le rime non penalizzano la resa della sostanza drammatica, esistenziale: «Un uomo in treno, disperato» che «non può urlare», e «un giorno nessuno più lo chiama / ma gli chiede dove sei stai bene? […]».
Ma è più avanti che il nostro “commesso viaggiatore” dell’anima «[…] come le rondini che volentieri fabbricano il loro nido fra le rovine» (Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano, in esergo alla sezione Vuoto a perdere, e altro da me) trova il massimo delle possibilità espressive nelle stanze di volta in volta abitate per viaggi di piacere o di lavoro, sempre vissute come il proprio nido, nonostante la consapevolezza della propria “erranza”, la certezza della inevitabile ri-partenza: «[…] Grande la colpa di chi è nato. / In ogni stanza il silenzio stringe le ombre / a scomparse stagioni, ad antenati senza nome […]», così inconsolato e fraterno “scrive ancora” Salvatore Ritrovato nella bellissima Lasciando Grodek.
E ancora in Quello che non puoi togliere, penultima sezione ‒ separata da un cuoricino stilizzato a rafforzare ancora una volta una rigorosa pausa prima dell’ultima epica poesia dell’assurdo Omero spense la luce perché pensava , fatta di stanze e non solo, come quella paradigmatica della “casa dei venti”, che realmente esiste al centro di una città vera e conosciuta, amata e tante volte visitata. O no, invisibile, forse: «[…] questa casa di venti senza casa me l’hai lasciata negli occhi / solo a ricordarla, e non ha più finestre […]» (La casa dei venti). Ecco, qui, in queste poesie finali, dal passo più lungo e vagamente prosaico, scocca la scintilla della migliore poesia, quando le immagini si sviluppano in sequenze sospese tra realtà e sogno, tra trito scialo quotidiano e ambiziosi (sensuali) desideri, ordinariamente umani, quasi sempre nascosti. Infatti, forse l’immagine più aderente alla verità di Ritrovato la possiamo scorgere tra le tende (velo ingannatore?) dell’ennesima finestra lontana da qui, dove, cullato dal ritmo della malinconia, il poeta, con un’apparente semplificazione dello stile, ci inchioda alla nostra impotenza di spettatori di realtà sempre più assurde e innominabili: «[…] Mi domando se un ricordo che da sempre ci aspetta / un giorno all’improvviso invecchia, / se quel bacio che per un attimo ci ha legato / nel mondo dove tu non abiti più, è tornato /nei tuoi pensieri con una dolce stretta» (L’aurora di Guayaquil). E se ritorna: «[…] In quel lembo di casa c’è il mio sogno. / Io saprò riabbracciarti, sedere con te al desco, / […] Ma io sono qui e la terra trema ogni giorno: / è la linea inferma del mondo. […]» (L’ultima epistola). Ecco, nonostante tutto, in questi versi calmi ‒ dolci-amari ‒ e di crescente respiro ciò che si sente di più sono gli sprazzi di gioia, la voglia di vivere contro l’orrore del presente che incombe come condizione imprescindibile ma non irrimediabile.

©Gianni Iasimone


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