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Daniele Piccini, Regni (rec. di I. Grasso)

Daniele Piccini, Regni
Manni, 2017

recensione di Ilaria Grasso

 

La grande sfida che Daniele Piccini affronta nelle sue poesie è quella di provare a dare corpo alle “assenze” e di farlo con l’unico strumento di cui un poeta può disporre: la parola. Nella nota introduttiva a Regni, Antonio Prete afferma che è una raccolta poetica perché “fa della parola il campo dove l’assente prende figura e ritmo, dove il visibile mostra il suo confine, l’enigma”. Sono molto d’accordo con questa affermazione in ragione del fatto che di fronte a ogni testo di Piccini occorre mettersi in ascolto in maniera profonda al fine di apprendere qualcosa in più del mondo visibile. Mi riferisco a quell’altrove intangibile che molti di noi avvertono perché consapevoli di avere una dimensione spirituale.
I cieli, le stelle, le notti che il poeta rappresenta sono un continuo interrogarsi sull’origine della vita, sulla sua natura e ancor di più su cosa rimane dopo che qualcuno o qualcosa non c’è più. Piccini osserva il mondo e lo racconta con la grande consapevolezza che anche la migliore teoria fisica o chimica non può fornire risposte risolutive. Ci si può invece affidare alla filosofia e alla religione alle quali la produzione poetica di Piccini sembra invitarci a demandare. Se la poesia riesce a riprodurre, evocare, esprimere emozioni e sentimenti è proprio perché queste eludono le categorie dello “spazio” e del “tempo” che sono alla base dell’osservazione della fisica e della chimica. La natura, nei suoi versi, riesce ad essere metafisica perché, sotto il suo sguardo da poeta, può andare oltre. Piccini ci porta lì dove le cose stanno per donarsi al mondo, senza svelarcele, ma lasciando al lettore la possibilità di nominarle, anzi proprio auspicandolo. Lo fa con grande tatto e grande umiltà, non si pone su un piedistallo, né si dota penna rossa o di bacchetta. Il suo ego sparisce. Tutti assieme aspettiamo con lui tremando per l’epifania che viene.

Il mistero del cosmo senza fine
è negli occhi del gatto che fu vivo,
dilavato dal tempo e già fiorito
una stagione sola: ora ci guarda
da immagini precise e illuminate,
come se fosse ancora accarezzabile,
mentre il tempo si fa come cometa
indicandoci il punto della sosta.
“Dorme” dice la bambina “lei dorme,
ma quando si sveglierà avrà fame”
e io non voglio più spiegarle nulla,
né consolarla: veramente dorme,
dorme soltanto e aspetta

Ma dicevamo della parola. La parola è un dono che va protetto, trattato con cura, ponderazione e ascolto per avere un significato pieno e valido di pensiero e ampia adattabilità e possibilità di inclusione per le realtà più disparate. Diventa dunque utile strumento di espressione affinché i bisogni dell’umanità tutta possano essere accolti. Di questa umanità fanno parte i morti (le loro volontà), ma anche i vivi che hanno necessità di dire. Ne fa parte anche chi riconosce la centralità della parola per un dialogo costruttivo e per la creazione della bellezza e del bene utile al mondo per vivere, ma anche per chi ha bisogno di codificare correttamente per aiutare, incoraggiare, costruire.
Non è un caso che nella raccolta sia presente una sezione denominata Colloqui o che ci siano interi versi virgolettati a testimoniare un dialogo tra chi scrive, chi parla, chi legge e chi comunica in definitiva. Piccini ci dimostra che non è importante che quel dialogo sia a distanza o in presenza di un interlocutore fisico. Chi vuole leggere a fondo deve meditare sui testi e ragionare sulle parole. L’atto della lettura dei versi di Piccini ha un che di mistico, spirituale come accade nella lettura nei grandi poeti della tradizione russa. Uno su tutti Mandel’štam per la pienezza delle parole, per l’ampio valore spirituale e per la profondità delle riflessioni, direi addirittura ricercati attraverso uno studio metodico e rigoroso. Daniele Piccini fa senz’altro parte di quei poeti che leggono (forse meglio dire studiano) con passione la poesia e che ne hanno fatto lavoro, non solo mestiere e/o artigianato. Ricordiamo che, oltre a essere poeta, è anche professore di filologia, critico letterario, giornalista culturale, divulgatore e dantista. Come poeta, professore universitario e divulgatore opera per trasferire la poesia come disciplina, strumento di conoscenza e occasione di educazione alla pazienza, all’ascolto e all’impegno. Questo mi sembra di leggere in questi versi ponderati e realistici:

“Forse una cosa semplice” lui disse.
“Ad esempio: Sua vita fu lo studio”.
“Ha ragione” rispose quello, pronto
a prendere l’appunto.
“Sono i testi migliori, quelli lunghi
non li legge nessuno”.
Chiuse così il conto di una vita.
Sarebbe stato, anche l’altro, d’accordo.

La parola è quindi strumento a servizio della comunità (la scrittura è una traccia sopra il bianco/e crepita il suo passo mentre cerca/tra il buio e il chiaro il bene della vita). Ricordo un intervento di Daniele Piccini al Festival della Letteratura di Mantova in cui definiva il poeta utilizzando le parole di Ritsos, secondo il quale i poeti sono “gli inconsolabili consolatori del mondo” e quindi a corollario potremmo dire che fare poesia vuol dire scrivere parole in grado di rimettere in piedi un uomo dopo averlo visto abbattuto e a farlo rinascere più vigoroso alla luce degli effetti degli incoraggiamenti della consolazione.

Dove mai troveranno il recipiente
del bisogno nascosto della specie
conoscendo perché la fame è ardente,
la ragione dei messi nella pece…
Quelli che non accettano la legge
la natura li accampa e li discioglie,
che non lascino traccia, li corregge
col fuoco e con la brina delle foglie:
continua, lei, la sua asciutta parola
traversando le età come signora,
come suddita o povera servente.
Per quelli, niente cambia: gli aggiogati
tra una morte e una nascita a fiorire,
rilucenti negli occhi della madre.

Mi sono a lungo interrogata sul perché la parola, nonostante liberi, sia “suddita”. Ho pensato alla grammatica e alla sua necessaria gerarchia che ne definisce ordini di priorità e passaggi necessari per andare avanti e regole utili alla comprensione. Forse mi sbaglierò. Sta di fatto che per Piccini la precisione e l’ordine sono metodo di lettura, di studio e quindi di scrittura imprescindibili. Mi sono accorta ad esempio che in quest’ultima raccolta sono presenti anche altre poesie precedentemente pubblicate in Terra del desiderio (Nomos Edizioni). Penso ad una volontà precisa e cioè quella di mettere sempre in discussione i suoi testi e di dare loro un ordine sempre più preciso, sempre più corrispondente nel senso. Infatti anche i nomi delle sezioni cambiano nelle raccolte.
Domandandomi sull’origine del titolo della silloge ho immaginato che questi “regni” su cui Piccini ha fatto poesia siano tutto il mondo, organizzato secondo una tassonomia propria che ne definisce il senso. Quella della ricerca di senso è un’ossessione speculativa a cui Piccini ci ha abituato, come in questo testo tratto da Inizio fine, dove il poeta riesce a trovare un orizzonte di senso anche al dolore che spesso sentiamo di subire ingiustamente e per giunta senza alcun fondato motivo.

Se il dolore non fosse questa spina,
questa lunga dorsale della vita
forse non saremmo altro che niente,
e dobbiamo ringraziare
che ci venga a visitare e ci porti
notizia delle cose
che nell’ombra ci appaiono e nel turbine

Durante la lettura di Regni gli eventi, con un senso più ampio possiamo dire anche la storia, seguono un moto circolare dove esiste il gelo dell’inverno e il tepore della primavera che nasce. Nella metafora della notte troviamo solitudini e angosce umane, le impercettibili luci delle stelle, fitte ombre e urli di animali, ma il poeta non è spaventato, né spaventa chi legge,perché “in ogni notte è il segno di una vita/possibile, futura o andata via”. C’è sempre qualcosa che ancora può accadere. Piccini tiene con cura accesa la fiammella della speranza e della possibilità che qualcosa accada ancora perché il cielo che di notte fa paura può anche essere Regno di qualcos’altro che “riprende forma/già risorto nell’ombra della mente”. Si sente molto, nei versi di Piccini, una Fede incrollabile e una spiritualità profonda che si apre e dialoga con i grandi temi del mondo che, senza temere alcun semplicismo o inefficace sintesi, potremmo definire la nascita e la morte o per meglio dire il mistero della vita e della morte. Sono misteri, impariamo tramite il suo poetare, che non devono incutere in noi paura, soprattutto quella della morte, perché ad attenderci ci sarà, se abbiamo Fede, “qualcuno” con le “mani bucate, con le braccia/spalancate per sempre”.

© Ilaria Grasso

Una replica a “Daniele Piccini, Regni (rec. di I. Grasso)”


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