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Stefano Brugnolo, La tentazione dell’Altro

La tentazione dell’Altro
Avventure dell’identità occidentale da Conrad a Coetzee

1 Di cosa parliamo quando parliamo di alterità

Prima di cominciare a prendere in esame i testi e di provare a ordinarli secondo qualche criterio, è necessario dire meglio cosa si intende qui per Altro/Altri/Alterità. Sono parole abusate, ma non vedo come potrei astenermi dall’adoperarle. Voglio intanto premettere che se userò spesso la parola Altro (con la maiuscola) lo farò al fine di suggerire l’idea che al di là delle tante diversità è esistito un più generale senso o sentimento dell’Altro, e che esso è la conseguenza del gigantesco sforzo compiuto dall’Occidente per controllare, contenere, escludere quanto di “irrazionale” si opponeva alla civiltà: la follia, le perversioni, l’improduttività, il pensiero magico, le superstizioni ecc. Non è vero, come vorrebbe un certo pensiero che ontologizza e mitizza la diversità – si pensi qui a Foucault e ai suoi seguaci –, che si trattò solo di un’operazione di esclusione ed emarginazione, si trattò anche di includere e omologare quanto prima era eccentrico, misterioso, fuori squadra; ma certo il risultato non cambia e fu quello di un generale disincanto che tese a ridurre le differenze tra i popoli e le culture. Come ho già detto, ne risultò per contraccolpo un bisogno, una nostalgia di alterità, quale appunto ritroviamo anche e soprattutto nella letteratura che prenderò in esame. Se dunque quest’ultima si mostra affascinata e inquietata dall’Altro, andrà poi specificato caso per caso di quale alterità si tratti. Il presupposto filosofico e antropologico da cui parto è infatti che esistono solo diversità relative a fronte di un’umanità che è unica nello spazio e nel tempo: apparteniamo tutti a una comune specie e per quante differenze si diano tra culture, lingue e nazioni le nostre esperienze restano comunque confrontabili. In questo senso condivido integralmente quanto una volta ha scritto Claude Lévi-Strauss (1983, p. 10): «coloro che pretendono che l’esperienza dell’altro – individuo o collettività – è, per essenza, incomunicabile e che è sempre impossibile, e persino colpevole, voler elaborare un linguaggio in cui le esperienze umane, lontanissime nel tempo e nello spazio, diventerebbero, almeno in parte, mutualmente intellegibili, altro non fanno se non rifugiarsi in un nuovo oscurantismo». L’altro non è irraggiungibile o indecifrabile, si può farne esperienza, ci si può identificare con lui, e comunque lo si può immaginare, e questa letteratura ci testimonia proprio di tale possibilità, anche se poi contemporaneamente ci dà conto della sua problematicità. Va da sé, infatti, che qualunque rappresentazione letteraria dell’alterità si dà sempre e comunque sulla base di pregiudizi e proiezioni. Questo, però, non rende meno significative e potenzialmente illuminanti quelle rappresentazioni. La libertà sessuale dei tahitiani, per esempio, è stata certamente trasfigurata da viaggiatori, scrittori e pittori, che ne hanno dunque dato una descrizione poco oggettiva, ma ciò non toglie che essi si sono confrontati davvero con quelle forme di esistenza, e che questo confronto ha provocato una serie di reazioni e domande, quelle sì autentiche e decisive. Domande come le seguenti: cosa ci distingue dagli altri? Cosa ci dispiace o piace dei loro sistemi di vita? Come dobbiamo misurarci con essi? Vogliamo cambiarli o rispettarli per come sono? È preferibile il nostro o il loro modo di vivere? Ora, le risposte che ne sono derivate sono state interessanti anche e proprio perché quegli artisti hanno valorizzato e spesso esagerato le differenze antropologiche, trattandole da suggestivi termini di paragone per un’indagine che in definitiva verte sulla condizione umana. Chi dunque denuncia le deformazioni ed esagerazioni di cui avrebbero dato prova quegli artisti trascura il fatto che, diversamente dagli storici o dagli antropologi, essi non mirano a rappresentare obiettivamente gli altri, adottando un punto di vista impersonale, bensì a rendere l’effetto che ci fanno, le conseguenze che l’incontro (o lo scontro) con loro produce in noi. Ne deriva che per esempio i tahitiani di Gauguin non ci restituiscono i tahitiani “veri” ma quelli visti da un soggetto europeo – da intendere qui come sovraordinato alle distinzioni di classe, culturali e nazionali che lo attraversano al suo interno – che si confronta con quella gente a partire dalle sue passioni, dalle sue ossessioni e anche dai suoi cliché, e non certo come un soggetto puro e disinteressato. Lo stesso concetto di stereotipo, se riconsiderato in questa prospettiva, può allora dispiegare tutta la sua potenziale ambivalenza. Prendiamo quello, coltivato da Kipling e da altri, secondo cui gli orientali sarebbero lenti, poco puntuali, disorganizzati, incostanti nel lavoro, inclini ai piaceri e all’ozio. Certo, sono generalizzazioni inaccettabili: questi orientali si costituiscono come anti-modelli, controfigure negative di occidentali concepiti come efficienti, produttivi, puntuali; diventano cioè veri e propri capri espiatori dell’ideologia coloniale. È, infatti, come se le “parti” pigre, edonistiche, rilassate presenti nell’homo occidentalis venissero proiettate nell’orientale, e con ciò espulse da sé. Ma il risultato di tale operazione, allorché viene gestita da un grande autore, è tutto fuorché scontato: quei difetti possono infatti trasformarsi in pregi, diventando manifestazioni di ricchezza umana, di una capacità di sentire e vivere in modo più sensuale e intenso. Quello che abbiamo proiettato fuori di “noi” ci ritorna allora come un’immagine deformata ma rivelatrice di ciò che abbiamo rinunciato a essere e a vivere, dei nostri desideri più segreti: dietro il “noi non siamo come loro” emerge un “noi potremmo/vorremmo essere come loro”. E questo accade perché, diversamente dagli ideologi imperialisti e razzisti, i grandi scrittori e artisti, anziché assolutizzare e reificare quei presunti difetti dell’Altro, li rappresentano con curiosità e generosità, fino a renderli interessanti e anche seducenti, e a trasformarli in pregi. E così, mentre l’ideologia tende a nascondere quanto per esempio l’Ebreo egoista e avido non sia altro che la controfigura rivelatrice del gentile egoista e avido, una sua proiezione appunto, Shakespeare, nel riprendere quello stereotipo (che almeno in parte condivideva), fa sì che sia poi lo stesso Shylock a rovesciarlo, mostrando ai suoi interlocutori (e agli spettatori) che loro sono come lui (The Merchant of Venice, 3, i, vv. 60-63): «If you prick us, do we not bleed? If you tickle us, do we not laugh? If you poison us, do we not die? And if you wrong us, shall we not revenge?». Allo stesso modo agiscono gli scrittori coloniali che qui prendo in esame: Conrad, Stevenson, Kipling, Loti, Maugham ci raccontano di personaggi portatori di pregiudizi occidentali che spesso loro stessi condividevano, ma ci mostrano anche, e per questo sono preziosi, come quei pregiudizi entrino in fatale contraddizione con le esperienze reali che quelli fanno “oltre il confine”. Ciò che li rende così interessanti anche a distanza di tempo è dunque proprio l’esplorazione di una contraddizione che interessa tutti, se supponiamo che le diversità umane siano sempre e per tutti una sfida, una minaccia, ma anche un’occasione. In altre parole ancora, quelle opere sono illuminanti non benché ma proprio perché implicano i luoghi comuni discriminanti che poi interrogano. D’altra parte, pretendere un’astratta obiettività ed equità dai discorsi letterari significherebbe misconoscere che essi sono contigui ai discorsi di tutti, e di essi condividono le approssimazioni, le incoerenze e perfino i luoghi comuni. Ecco perché, mentre studi e trattati mirano a essere specifici, esatti e “misurati”, gli anti-specialistici discorsi letterari sono necessariamente idiosincratici. Le affascinanti descrizioni conradiane così cariche di arcaicità e mistero della “nera” foresta africana risulterebbero inattendibili e inaccettabili se venissero giudicate secondo i parametri adottati da naturalisti e geografi, eppure è solo perché gli artisti rendono i paesaggi e le popolazioni diverse così alieni e misteriosi che alla fine ci restituiscono, sia pure per via di eccesso e di contrasto, nuove immagini di “noi stessi” e, più in generale, delle possibilità dell’umano. L’Africa di Conrad, l’India di Kipling, la Cambogia di Malraux hanno una relazione solo indiretta, figurata, con l’Africa, l’India e la Cambogia reali, ma ciò non toglie che quelle immagini possano essere vere, ma allora vere di un’altra verità, che non riguarda gli africani e gli indiani in quanto tali, ma in quanto rappresentativi di forme di vita e di modi di rapportarsi al mondo ben altrimenti generali.
Per spiegarmi voglio evocare Edward Said, uno dei principali esponenti della critica postcoloniale, là dove cita lungamente Anouar Abdel-Malek: secondo quest’ultimo studioso gli orientalisti «adottano una concezione essenzialista delle regioni, nazioni e popolazioni orientali che studiano, una concezione che si esprime attraverso una ben caratterizzata tipologia etnica […] che verrà ben presto condotta ai limiti del razzismo» (Said, 1978, p. 101). Contro queste immagini stereotipate dell’Altro, Said propugna l’esigenza etica, oltre che conoscitiva, di considerare il diverso secondo la sua obiettiva e interna complessità e varietà. In linea di principio ha ragione, ma va ricordato che quelle caratteristiche fantastiche ed “essenziali” che gli artisti attribuiscono alle popolazioni cosiddette esotiche, oltre a essere tipiche di ogni rappresentazione poetica, necessariamente visionaria e soggettiva, sono anche e proprio quelle che permettono all’autore e ai lettori di ritrovarsi in quei popoli e in quelle culture, di sentirli simili. Insomma, nel mentre credo sia giusto pretendere da esperti, studiosi e scienziati, che siano oggettivi e rigorosi nelle loro descrizioni, non credo che sia possibile una rappresentazione dell’Altro in chiave letteraria che non sia anche, a qualche livello, essenzialista.
Facciamo subito un caso speciale, un caso in cui a essere descritti come “altri” (e cioè come “primitivi”, “selvaggi”) siamo “noi”. Mi riferisco a Stendhal e a come lui considerava e rappresentava gli italiani. Siamo dalle parti del nostro topos se è vero che lo scrittore era particolarmente “tentato” dagli italiani e dall’Italia, e che li considerava meno civili e progrediti dei francesi. Niente di più essenzialista, o, se si vuole, orientalista. Ma anche in questo caso occorre chiedersi cosa rappresentava per Stendhal l’Italia. Per lo scrittore, scrive Crouzet (1982, p. 23), «L’Italia, nucleo di arcaismo nel presente, agisce come una figura del rimosso, rappresenta “l’altro lato” d’Europa», il suo lato più arretrato e superato. In altre parole, gli italiani di Stendhal sono presentati come essenzialmente passionali, istintivi, spontanei, generosi, nel bel mezzo di un mondo dove cominciavano a prevalere condotte di vita caratterizzate da calcolo e vanità. Non c’è dubbio che se dovessimo prendere alla lettera queste sue qualificazioni potremmo definirle come stereotipiche e improntate a una condiscendente superiorità. Ma chiunque legga Stendhal sente che non si tratta di facile esotismo, ma che anzi egli proietta su quei suoi italiani parti importanti di sé; proprio questo coinvolgimento rende perspicue e convincenti le immagini dell’Italia che ci ha lasciato. Sempre secondo Crouzet, infatti, «passando le Alpi» Stendhal ritorna «verso qualcosa che, là dove vive lui, è perduto o negato» (ivi, p. 13), ritorna a casa. E a confermare questa ipotesi Dennis Porter ha scritto che nella «geografia fantasmatica» di Stendhal l’Italia è «una terra senza padri», un luogo che svolge «la funzione della terra materna e di una pienezza di vita pre-edipica» (Porter, 1991, p. 142). Un luogo, insomma, dove è possibile immaginare un’esistenza più piena, con sensazioni e piaceri più intensi. Per Stendhal, secondo un paradosso in cui ci imbatteremo tante volte, pur essendo «indietro, [l’Italia] sembra anche essere avanti: più vicina a un ideale di libertà di quanto lo fossero i “paesi” del Nord» (ivi, p. 35), anche se naturalmente si tratta di una libertà pre-politica, quasi un equivalente di spontaneità, piacere, naturalezza. Affermare che gli italiani di Stendhal non sono descritti obiettivamente mi pare scontato, più corretto sarebbe invece dire che lo scrittore seleziona ed enfatizza certi caratteri nazionali, presentando l’italianità come sineddoche o antonomasia di fenomenologie esistenziali molto più ampie. Gli italiani nella rappresentazione che lui ce ne dà sono i rappresentanti emblematici di una classe potenzialmente infinita di individui: quella di cui fanno parte gli uomini e le donne che desiderano spontaneamente, autenticamente, energicamente. Va da sé che, considerate così le cose, chiunque può sentirsi, almeno potenzialmente, simile agli italiani di Stendhal. Perfino noi italiani “veri”!
L’esempio di Stendhal ci serve per dire che quando leggiamo i testi letterari che ci raccontano di popoli e culture altre effettuiamo spontaneamente una serie di «sostituzioni, mutuazioni, assimilazioni, equiparazioni» (ivi, p. 52) tra quelle “strane” situazioni e vicende con situazioni e vicende a noi più prossime e che, dunque, ci riguardano. Insomma, la domanda che dobbiamo porci ogni volta davanti a questi testi è: di cosa stanno parlando Conrad, Kipling, Maugham, Loti, Malraux quando parlano di africani, indiani, samoani, turchi, cinesi? E la risposta è che gli artisti non parlano mai solo e proprio di quei certi popoli e territori e culture, bensì che, parlando di quei popoli e di quelle culture, essi mobilitano altri sensi, altri significati, più universali. In altre parole, se queste immaginarie avventure oltre il confine sono così interessanti è perché non si svolgono solo lontano da “noi”, ma anche, se non soprattutto, dentro di “noi”. L’Oriente, allora, non è tanto un luogo geografico, ma anche e più che mai un luogo della mente o, se si preferisce, dell’inconscio culturale della civiltà occidentale (e cose simili si potrebbero dire dell’Africa e di altri luoghi). Come a dire che all’Altro incontrato lontano da “qui” corrisponde un Altro che è vicino e anzi dentro la nostra civiltà, anche se non sempre di esso si ha consapevolezza. Se infatti è vero che l’Occidente moderno ha proceduto all’eliminazione o comunque alla riduzione delle tante alterità antropologiche ancora esistenti nel mondo, è vero altresì che nel contempo, e per una sorta di effetto di contrappasso, è cresciuto il senso di una alterità interna. Le rappresentazioni che Conrad, Céline e Naipaul ci hanno lasciato di una certa Africa; o Lawrence e Gide di una certa Arabia; o Kipling, Loti, Malraux di un certo Oriente; o Carpentier, Borges e Vargas Llosa di una certa America Latina sono così suggestive e risuonano così tanto in chi legge perché quegli ambienti sono anche spazi immaginari in cui possiamo tutti proiettarci per ripensarci, per rivederci, per ricordarci come eravamo o per sognare come forse potremmo ancora essere. In definitiva è come se il soggetto occidentale (ma forse a questo punto sarebbe meglio parlare di un soggetto globalizzato) si rispecchiasse nell’Altro perduto e rimpianto, e in quello specchio riconoscesse parti di sé inquietanti o affascinanti; pezzi di passato e spunti di futuro.
Con il filosofo Nelson Goodman (1998) potremmo dire che gli orientali di Kipling o i tahitiani di Gauguin esemplificano metaforicamente certe proprietà generali che secondo quegli artisti tali popolazioni incarnano, ma credo che sia forse più utile provare ad applicare ai nostri testi quel «principio di generalizzazione» che, secondo lo psicoanalista Matte Blanco, è caratteristico dell’anti-logica dell’inconscio. Tale logica non privilegia affatto l’individuale e il concreto e inclina invece a sommergerlo nel più universale e nel più astratto: nell’individuo vede la classe. Se noi applichiamo questi postulati, ecco allora che le sostanze nazionali o etniche o regionali cessano di illuderci appunto perché sentiamo che i poeti (diversamente dagli studiosi e dagli scienziati) le hanno concepite «come sottoclass[i] di una classe più generale» (Matte Blanco, 1981, p. 43), definita da uno speciale attributo che spetta solo alla fantasia dell’artista individuare e imporre al suo pubblico. È seguendo questa linea di pensiero che, secondo Francesco Orlando, il lettore del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa realizza spontaneamente e inevitabilmente una «espansione di significato», «non necessariamente portata a coscienza», «dall’individualità della condizione periferica siciliana all’universalità di tutte le condizioni periferiche; da una periferia (se la parola può sintetizzarne altre: provincia, meridione, terra arretrata…) a ciò che, pur restando vivamente individuato, tende a diventare la periferia» (Orlando, 1998, p. 121). Solo questo meccanismo può spiegare che lettori anche molto lontani nel tempo e nello spazio dalla Sicilia che aveva in mente Tomasi di Lampedusa abbiano potuto “sentirla loro”: a ogni latitudine esistono infatti zone periferiche e, dunque, vissuti periferici confrontabili e anche equiparabili a quelli evocati dallo scrittore. È, però, importante quell’inciso – «pur restando vivamente individuato» –, perché in effetti, sempre secondo Matte Blanco, il pensiero inconscio, nella sua tendenza a una dilatazione infinita dei significati, seleziona e sottolinea nelle entità singole da cui è partito per costruire la classe «alcune caratteristiche particolari della cosa individuale» (Matte Blanco, 1981, p. 44). In altre parole, è a partire da una Sicilia ricreata che Tomasi ci spinge a riferirci alla condizione periferica in generale (intesa come classe aperta all’infinito), ma va da sé che essa sarà pur sempre colorata, impregnata di Sicilia, di quella specialissima Sicilia reinventata dallo scrittore. Se adottiamo questa prospettiva, l’Italia di Stendhal e l’Africa di Conrad costituiscono sottoinsiemi di insiemi più generali, che riguardano anche e soprattutto i non italiani e i non africani e in definitiva “tutti noi”. Restando però vero che le caratteristiche vividamente peculiari che ogni specifico scrittore attribuisce a quelle realtà ambientali e antropologiche impressionano memorabilmente e condizionano necessariamente le espansioni di significato effettuate dai lettori.
Questa mi sembra una messa a punto teorica importante se si vuole finalmente uscire dalle secche di una discussione che con qualche ingenuità riferisce univocamente i testi di ambientazione coloniale alle realtà nazionali, regionali o etniche che pure essi rappresentano. Occorre in altre parole assumere fino in fondo che la scrittura letteraria è necessariamente figurale e non parla mai proprio e solo di ciò di cui parla, ma scioglie certe identità rigide, che magari prende a prestito da idee e stereotipi diffusi, dentro insiemi più vasti, dove è possibile che quelle che, per un certo senso comune, sono differenze e opposizioni irriducibili si trasformino in equivalenze sorprendenti e illuminanti. Così, mentre l’ideologia ci persuade che i Persiani sono altra cosa dagli Ateniesi, che gli ebrei sono altra cosa dai gentili, che gli orientali sono altra cosa dagli europei, scrittori come Eschilo, Shakespeare, Kipling ci suggeriscono le analogie profonde e magari disturbanti che accomunano gli uni agli altri. Ed è significativo notare come l’approccio matteblanchiano sia in sorprendente sintonia con l’approccio aristotelico. Mai nessuno come Aristotele (1998, p. 21), infatti, ha insistito sulla portata generale, universale, delle verità poetiche: «La poesia è più filosofica della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale mentre la storia racconta i particolari. Appartiene all’universale il fatto che a qualcuno capiti di dire o fare certe cose secondo verosimiglianza e necessità, e a questo mira la poesia, aggiungendo successivamente i nomi; appartiene al particolare dire cosa ha fatto o cosa è capitato ad Alcibiade» (51b 5-10). È importante questo riferimento ai nomi. In un discorso di tipo puramente denotativo e descrittivo, che mira a dire «che cosa ha fatto o che cosa è capitato» a questo o a quel soggetto, i nomi sono di fondamentale importanza e fanno la differenza (si pensi ancora alle descrizioni oggettive che un geografo o un antropologo possono produrre di una specifica nazione o di uno specifico popolo), mentre in un discorso letterario i nomi (per esempio le appartenenze nazionali e regionali) si riferiscono a significati sempre più ampi. Molta critica attuale, invece, pare proprio fare questo: reifica i nomi, le etichette e perciò le sostanze nazionali o territoriali.
Prendiamo il caso paradigmatico di Heart of Darkness. Se noi leggessimo il testo riferendoci solo alle realtà esplicitamente nominate, dovremmo dire che esso è una critica specifica dell’imperialismo belga, i cui rappresentanti vengono denunciati in quanto committenti di Kurtz e responsabili di uno sfruttamento devastante e disumano del Congo. Non solo, sempre ad attenersi alla lettera del testo, si dovrà dire che il narratore della storia, Marlow, menziona l’imperialismo inglese come un sistema che funziona bene: nelle parti segnate in rosso della «large shining map, marked with all the colours of a rainbow», infatti, «one knows that some real work is done in there» (Conrad, 1971, p. 10) . A questo proposito Said (1998, p. 94) osserva che Marlow opera «una distinzione nella gestione dell’impero tra la rapacità dei belgi e (implicitamente) la razionalità britannica». Certo, se le cose stessero così la portata critica e poetica del testo sarebbe molto ridotta. Chiunque abbia letto il romanzo, però, sente e sa che la sua potenza risiede proprio nella capacità di mettere in questione tutto l’imperialismo e, anzi, tutta la civiltà che ha prodotto l’imperialismo e non certo unicamente il degenere colonialismo belga. Lo testimonia anche soltanto un passaggio come questo, dalla portata assolutamente universale: «The conquest of the earth, which mostly means the taking it away from those who have a different complexion or slightly flatter noses than ourselves, is not a pretty thing» (Conrad, 1971, p. 7) . Diciamo allora che il testo di Conrad si fonda su una macrosineddoche: l’imperialismo belga sta per l’imperialismo occidentale e Kurtz incarna all’ennesima potenza una volontà di dominio impazzita. Ma di questi rovesciamenti dell’ideologia dominante sono piene le opere che esamineremo. Esse parlano di individui e comunità ben definiti e secondo schemi ben definiti, ma in realtà parlano sempre di qualcosa d’altro e lo fanno in controtendenza rispetto a quegli schemi di partenza. D’ora in poi faremo proprio questo: indagheremo come alcuni testi cosiddetti coloniali mettano in opera questi meccanismi di rovesciamento. E lo faremo nella convinzione che questa nostra analisi, centrata com’è sulla rappresentazione delle diversità culturali e antropologiche nell’età dell’imperialismo, possa contribuire a confermare un’ipotesi di più largo respiro: che sempre il testo letterario eminente, nel mentre partecipa allo sforzo inevitabilmente repressivo e sublimante compiuto dalla civiltà per tenere a una qualche distanza le alterità che continuamente la minacciano dall’interno o dall’esterno, ci renda poi possibile riconoscerci in quelle alterità, assumerle immaginariamente in noi, invece che provare a espellerle definitivamente. Si direbbe anzi che questa sia la sua funzione principale.

© Stefano Brugnolo

 


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