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Roberta Sireno: intervista su ‘senza governo’

Pubblichiamo oggi la trascrizione con ampliamenti dell’intervista fatta a Roberta Sireno in merito alla sua seconda raccolta senza governo edita da Raffaelli editore nel 2016 (il precedente, Fabbriche di vetro, è disponibile qui). L’intervista video è stata realizzata lo scorso luglio a Mestre e si può vedere ed ascoltare qui.

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Il libro si costituisce di tre parti che indicano lo svolgimento “narrativo-poetico” dei temi che tratti. Vuoi raccontarci come nasce il percorso, dal 2011 al 2015, che porta alla sua stesura?

È stato un percorso molto difficile perché, a differenza del primo libro, che è stato per me la storia di una scoperta, quella della passione per la poesia, la seconda raccolta è stata concepita in modo più isolato, più in solitudine, e l’ho elaborata all’interno di un sistema stilistico-poetico preciso in cui contenere il caos dell’esperienza. E quindi, a livello narrativo, si suddivide in tre parti cui corrispondono delle dimensioni temporali. È il tempo diciamo “non reale” ma quello della poesia. La prima parte s’intitola premessa, perché allude a una condizione preliminare di scavo dei fondali, delle profondità della poesia, da cui emergere. La seconda parte prende il titolo del libro, senza governo, e allude a una condizione in cui il corpo, la parola e il linguaggio sono esposti a un incendio, al fuoco della poesia, a qualcosa che vuole affermare ma anche distruggere il controllo. L’ultima parte, intitolata dopo, riguarda un momento successivo, in cui avviene una sorta di ricostruzione di un’armonia perduta, che è comunque momentanea e precaria, perché il precipizio è sempre vicino.

Sei entrata molto profondamente nei tre momenti. Vorrei farti un’altra domanda sulle tematiche. Dal mio punto di vista c’è in assoluto – ma in termini non esclusivi – il corpo, ma anche la parola che è corpo, già propria del tuo stile. E con il corpo c’è il sesso o meglio la sessualità e un attraversamento di una certa “violenza” che raccoglie, nell’etimologia, la VIS latina, traducibile come “forza, energia, vigore, potenza” e che “fa corpo” nella parola poetica. Come si declina, nel tuo poetare secondo te, questa VIS?

Sicuramente il corpo è stato centrale nella mia scrittura, anche perché si fa esperienza attraverso il corpo, il corpo è, infatti, memoria dell’esperienza: essa lo attraversa. Poi c’è da dire che il mio corpo ha subito un trauma, quello della sordità, del non sentire. Questa condizione di silenzio può essere negativa e positiva, e quando è negativa, nel profondo, agiscono alcune dinamiche: tra queste c’è un forte desiderio di comunicare; quando non si riesce, diventa difficile gettare i ponti con il mondo esterno. Invece l’aspetto positivo è che si conoscono altri livelli di realtà: delle realtà silenziose, profonde, segrete. Il trauma del corpo si riversa sulla scrittura, e diventa molto fisico; da esso scaturisce una violenza verbale, fisica, e una parola-carne, una parola molto corporea. E quindi poi si arriva alla sessualità, che è anche un modo di comunicare con gli altri attraverso il corpo.

Altra cifra del tuo linguaggio è la presenza di almeno due costanti: sostantivi e verbi con il prefisso –dis e –de con valore per lo più privativo e talvolta negativo e reversivo. Ma c’è anche la ripetizione di alcuni sostantivi, aggettivi, verbi che, nello stesso testo – e in più testi diversi –, eseguono una funzione: quella di accerchiare il senso. Ci parleresti del come avvengono in fase di scrittura queste scelte?

Le scelte stilistiche sorgono anche in modo spontaneo. Sicuramente questi sostantivi, verbi deprivativi, alludono a una mancanza, a qualcosa che si sottrae alla visibilità. E c’è anche una scelta sonora, perché – soprattutto – questi sostantivi che si ripetono in modo ciclico [alcuni si possono leggere nella recensione al libro], anche in modo quasi ossessivo, rappresentano il desiderio di inseguire qualcosa, e vogliono anche creare una musicalità, un’atmosfera liturgica, sacra. Queste parole che funzionano un po’, come si dice, “a dondolo”, formano una sorta di cantilena. È una scelta sonora, musicale.

Tenterei ora di agganciarmi alla domanda precedente pensandola amplificata, estraendo ancora un po’ più a fondo dal linguaggio anche a partire dal titolo, in cui il “senza” indica un’assenza e una mancanza ma anche una “regressione” in termini di movimento all’indietro e anche di decadimento, ma vi è anche una regressione filosofica, dal particolare all’universale. Ci daresti i valori di quel “senza” nella raccolta?

Questa condizione di “ingovernabilità” è una sorta di distruzione e di affermazione contro i sistemi del controllo del genere, dei corpi e della sessualità. Ma non è solo affermazione: è anche uno stare dietro, una sottrazione per affacciarsi a qualcosa di più grande, a qualcosa di cosmico. Infatti, verso l’ultima parte del libro, l’io è messo indietro, al secondo posto, per osservare qualcosa che è cosmo, armonia, frutto. E per farlo ha bisogno di indietreggiare, darsi una nuova posizione.

Inequivocabile, nei tuoi riferimenti, è il guardare al modello di Amelia Rosselli, che si sente leggendoti, in particolare un modello linguistico e sintattico. Non sono un’esperta di Rosselli ma noto come ti abbia influenzata, in un modo che definirei “sinergico”, perché la tua scrittura vive di uno stile proprio. Voglio chiederti quale sia la lezione della poeta che tu abbia imparato.

Amelia Rosselli a me piace molto; l’ho studiata, l’ho letta e mi sono appassionata. Riusciva a mescolare tutto: matematica, musica, filosofia orientale, psicologia e poesia. Secondo me è la madre di un nuovo femminismo, quello del secondo Novecento, e può essere considerata oggi un punto di riferimento fondamentale, in particolare negli studi filosofici e di genere. È anche l’inventrice di una nuova “struttura metrica”: era una studiosa di musica, e nei suoi versi, nelle sue forme metriche, c’è questa musicalità ritmata e ciclica che mi ha ispirato molto e ha influenzato le mie scelte stilistiche. Amelia Rosselli, però, dopo un po’ mi stava stretta, la sua rigidità sintattica e formale che vuole il controllo sul caos esperienziale, è limitante e soffocante. All’inizio anch’io ho avuto bisogno di questa rigidità come punto fermo nel magma linguistico, ma poi ho capito che si deve andare oltre e cercare una sorta di fluidità del verso, del corpo, della lingua, una fluidità che permetta di “allargarsi” in tutte le direzioni.

© Roberta Sireno e Alessandra Trevisan