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Ilaria Grasso, “In tagli ripidi” di A. Brusa

Nella sua ultima raccolta di poesie, dal titolo In tagli ripidi (nel corpo che abitiamo in punta), Alessando Brusa mostra il suo panorama esistenziale forse partendo dalla lezione di Whitman secondo il quale «ogni atomo che mi appartiene è come se rappresentasse anche te.» Se così non fosse, credo comunque che Brusa sia ben consapevole del fatto che dietro ogni libro ci sia un uomo con tutto il suo personalissimo vissuto e raccontarlo vuol dire comunicare (leggi qui come cercare le cose in comune). La varia varietà che troviamo nei versi di Brusa sembra rispondere appieno a una delle funzioni cardine, secondo me, della poesia cioè conoscere. Sono presenti infatti nella raccolta molti riferimenti culturali che Brusa attinge dalla musica, dall’arte e dalla metafisica. Ma è anche la storia a insegnarci e a farci accumulare conoscenza come rileviamo nella rima «: perché ho memoria […] perché scandaglio la storia.»
Se dovessi descrivere il moto produttivo del poeta immagino che Brusa si sia messo a versificare dal punto più alto di un canyon-ferita nato dall’erosione di tormente (esistenziali) così forti da creare pareti molto ripide.
Lì dov’è, Brusa trattiene il fiato non per l’aria troppo rarefatta, o per vertigine, ma per contenere la rabbia generata da quegli eventi che tanto l’hanno fatto soffrire; rabbia che avrebbe tutto il diritto di tirar fuori, ma non ci riesce e disperato implora addirittura un atto forte pur di liberarsene, come troviamo in questi versi:

mentre ti imploro di piantare
un pugno
nello spazio esatto
dove trattengo
il filo di rabbia che
non mi concedo

I versi della raccolta, tante volte asciugati, a una prima lettura mi sembrano criptici, misteriosi quasi ermetici anche per l’assenza di certezze. Le parole mi sembrano rese volontariamente ruvide e secche, dal poeta, proprio per descrivere meglio la desolazione e il senso di solitudine provato.
Leggendo, anch’io sono sul ciglio del canyon, in prossimità delle pareti ripide, in uno stato di equilibrio messo costantemente alla prova. Ho talvolta la sensazione di essere spaesata, posta su quell’estremità, in una posizione testata, nel suo assetto, continuamente. Verso dopo verso mi vengono tolti e aggiunti riferimenti spaziali e temporali; oserei dire anche narrativi, perché Brusa spezza infinite volte il senso che pure si avverte in maniera sotterranea.
Nella sezione Il tempo che abitiamo in punta, lo sguardo di Brusa esplora le pareti ripide del canyon-ferita mostrandoci tutta la loro sofferta profondità. L’operazione è ardua eppure con la giusta disciplina, l’utile distanza e il giusto tempo tutto accadrà in modo calmo e naturale. I passi compiuti, grazie alle consapevolezze assunte tramite un duro lavoro sul passato, li troviamo tutti nel dettaglio in questa poesia:

Delle terre calpestate resta
.    lo spigolo e le strade
.    e i volti,
nel deserto che ti resta
.    ogni notte

un Dio ti ha preso
ed impresso nel cuore
.    la ragione
a cui affidi capriccio
.    e debolezza

una debolezza che non sai
e che è tua, nel gioco di mani
.    e di lingua che
.    ti segno sulle labbra
e nella distanza che ho
.    messo anche dentro te
– il soldato con
.    la sua disciplina –

Sei l’equilibrio che mi
.    regala il tempo,
quando mi svesto di pioggia
.    come di carni bagnate.

I tagli, che danno il titolo alla sezione Il taglio del legno, non rappresentano un confine o un solco atto a dividere bensì un modo che la vita adopera per mettere alla prova e saggiare la nostra forza. Allargando di più il senso, i tagli sono anche quelli che lo strumento di scrittura fa sul foglio per comporre e sciogliere trame ancestrali, oggetto della quarta sezione, Nel nome del figlio. Il passaggio tra le due sezioni si muove tra una parte intima di sé e una parte che rappresenta il rapporto che Brusa ha con la poesia (il padre anche è un poeta) e la realtà («Ruba rima/e allunga il verso/che sotto il velo respira, lento/a polmone vuoto/se del figlio ricerco l’odore/e ne annuso l’assenza/passando la mano sul collo/umido e tra i capelli/bagnati dal sudore del risveglio»).
Solo abbandonando la dimensione di figlio che il poeta impara ad amare senza più la necessità di ferire e ferirsi per concedersi l’amore non più solo ed esclusivamente attraverso la cura. La visione si fa ora più chiara e l’io lirico può immaginare il futuro senza timore in maniera autentica e finalmente vitale.

Li ho amati tutti
– uomini fatti della
.     mia stessa carne –
ho baciato le loro
.   dita tra le mie,
ho accarezzato i
.   loro visi
e passato lame attente
.  sulle loro guance,
come allo specchio
fossi a curare il mio
.  stesso volto
perderli è sempre stata
.  la mancanza che smembra

ora invece ( di sguardo
.    tra le lenzuola)
sento l’occhio appoggiarsi a te,
che senza fiato hai fatto
.  vetro dei miei specchi
e trasparenza di prospettiva vera
ti amo perché sei altro
quando mi dai lo sfondo
.  degli anni
: non di tutti, solo
dei prossimi

La raccolta si conclude con le parole “perverso”, “pervertito”, “perdonato” e “dannato”. Sono parole forti e dure da leggere e sicuramente anche da vivere sulla propria pelle. Ma se il poeta ha voluto chiudere così la raccolta evidentemente è purtroppo ancora necessario scriverle e farle leggere affinché il lettore leggendole le percepisca come atto di accusa, come a molti ahimè ancora accade. Il poeta con questi versi di certo l’ha puntualizzato in maniera forte:

Perverso sono e
.  un pervertito
ma perdonato
.  seppur dannato.

Leggere Brusa è senz’altro una sfida, coi suoi versi così enigmatici, ma anche un modo insolito per indagare una parte di mondo e indagare il proprio. La sue poesie non sono di semplice lettura, proprio come la vita, spesso nell’inevitabile avvicendarsi dei giorni.

© Ilaria Grasso

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