OUTIS
Ceduto per sempre hai le certezze
all’ombra. All’umbratile attrazione
per una morte oltre Ade.
L’accarezzi come fosse parte
– timida – di una perdita più grande.
Errante, di braccia intatte
inconsunte delle cautele di padre.
Dei cupi dubbi pubescenti altri,
che non fossero propri, per arsura.
Per strategia d’anonimato.
Allora, ti basti la vasca! Tasca
placentare, liquida tana. Thalassa
a domicilio dove indugiare,
col guadagno di una natura accecata.
*
SPECIE
Così pietose, le cose. Tenaci
nel rimpianto e lungimiranti
come gli atlanti. In attesa protese,
croniche. Pure nel disuso.
E io breve. Quasi immobile,
impareggiabile tra la polvere,
che poi s’alza. Lieve,
sul vuoto scapolare del posacenere.
È un moto a perdere, inscatolare.
Una semina adiaforica
che produce il pegno di occupare:
apoplessia del bisogno.
Come il russare del valore, sul refrain
di una canzone demodé.
*
DI STANZA
L’infanzia è un lascito. Un testamento
inverso. Lo afferma lo specchio,
anche stamattina. Senza prospettiva
con lo sfondo al passato per sempre,
che è già il giorno dopo. E tu un pressapoco,
ingerente provvisorio
di un zelante scenario.
Così il sudario sta al verso
e come il riflesso, è vero
se non lascia speranza.
Dove l’impossesso ha il senso
di un non ritorno. Dichiari il volto
opposto, credendo il verso giusto
e sublimi il gesto di una cronaca banale.