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#PoEstateSilva #23: Daria De Pellegrini, Spigoli vivi

PoEstate Silva #23
Daria De Pellegrini, Spigoli vivi, InternoPoesia, 2017

 

ai mulini, l’un dopo l’altro, il torrente
ha scavato crateri da sotto, alla balera,
la cui terrazza si piega sul fango che
era stato giardino, il vento ha staccato
l’insegna, e a ogni passaggio di nuvole
fosche la pioggia scioglie strade
e scarpate come biscotti nel latte.
In compenso, accanto a un bar
di nuova gestione, stende luccicanti
le foglie una gran palma di plastica.

 

 

il prato dietro casa, per quanto l’erba stenti
tra il muschio secco a farsi viva, e le violette
pallide fioriscano di lutto, continua a credere
con ostinazione cieca a un miracolo d’aprile.

È tanta la mia pena che vorrei spianargli
in ghiaia l’agonia. Ma tornerebbe in sogno
con gli occhi offesi ancora, e increduli
di mio padre cui è toccata sorte analoga.

 

 

aprendo la mia insonnia
al cielo delle cinque di mattina
che chiaro ancora illude di sereno
il giorno, io già li sento nell’odore
come di piscio e spazzatura
lasciata a segnare il territorio
gli acquazzoni che verranno
a far poltiglia di rose e d’insalata.

 

 

neve, non molta. Quel tanto che basta
per non uscire a spalare. Aspettare qualcuno
che non verrà. O altra neve, sicura prima
di sera. Il pettirosso vola nervoso dove
erano torsoli sul mucchio dell’umido.
Lui sa allontanare anche i corvi.
Alla finestra io fantastico
che finiscano presto
cibo legna e gasolio.

 

 

non è grigio di nebbia è pioggia battente
che attacca che preme su tegole e infissi
a monte la frana riprende a smuovere sassi
a valle i detriti faranno sul torrente una diga
ed eccoti in mezzo a presidio del fango
con gli stivali di gomma e la mantellina
che fu di tuo padre.

 

 

dorme poco, sempre meno,
qualche ora in tarda serata. Poi,
quando sulla piazza di sotto resta acceso
un solo lampione e sembra semplice
l’essere al mondo, esce col cane
che vorrebbe andare a pisciare
sul tetto del supermercato.

 

 

uno sguardo alla corriera
in partenza e il passato mi soffia
attraverso come folata di vento
che da sola spoglia e fa diverso
il viale: li rivivrei grata e affettuosa
i tempi in cui lassù mi si attendeva
all’arrivo e c’era viva una casa
e in cucina qualcosa bolliva. Lumaca
lessata vorrei tornare in conchiglia.

 

 

da quando mia madre, bella la faccia
affilata dai novant’anni,
con voce che pesca nel fondo
tradisce il rimpianto
di non aver avuto scarpe coi tacchi
a sostenere le gambe
al tempo che erano buone, io
io, mio malgrado fedele a mio padre
che sciolto nel buio singhiozza,
esco nel campo a zappare
rivoltando rabbiosa zolla su zolla
per trovare la terra
e piantarvi le rape rosse
che come noi grossolane nel sangue
sapranno soltanto
sporcarmi di lutto e vergogna le mani.

 

© Daria De Pellegrini


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